Dal British Medical Journal al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, prendendo ispirazione da una frase di Fiona Godlee, da otto anni alla direzione della più importante testata di medicina d'oltremanica.
The best writing transforms the writer as well as the reader
Ovvero, la scrittura migliore è quella che riesce a trasformare allo stesso tempo sia il lettore che l'autore.
Per scrivere, o per comunicare un contenuto che meriti l'attenzione di altre persone, è necessario essere in grado di trasmettere qualcosa. Chi riceve un messaggio deve poterne trarre un'essenza che vada al di là della semplice retorica o dei dati di cronaca. Un contenuto di valore trasmette e lascia un arricchimento, non dà la sensazione di aver buttato il proprio tempo per leggere, ascoltare o vedere una vuota banalità.
Certo, per produrre un contenuto di qualità ci vuole tempo, ma soprattutto ci vuole tempo per maturare un'esperienza che valga la pena di essere raccontata. In altri termini, o si decide di dedicare molto tempo alla preparazione di un prodotto giornalistico, oppure gli autori di tali prodotti devono essere le persone che hanno già vissuto, o che ancora vivono, un'esperienza unica e speciale.
Quest'ultimo scenario potrebbe sminuire il ruolo del giornalista di professione, ma allo stesso tempo renderebbe ciascuno di noi giornalista, inteso come protagonista di una esperienza di vita originale e unica. O magari l'alternativa potrebbe essere lo slow journalism, concepito in questo caso come giornalismo lento nella fase di produzione dei contenuti, piuttosto che nel modo di presentarli. Forse una nuova frontiera della comunicazione, di cui non a caso si è parlato lo scorso aprile al Festival del giornalismo di Perugia. Certo, questo slow journalism richiede di dedicare molto tempo alla produzione di pochi contenuti, e in un mondo in cui la quantità (piuttosto che la qualità) ha un ruolo imprescindibile, si andrebbe ben presto a cozzare con i problemi economici.
Stare un anno in un manicomio per immedesimarsi nella quotidianità dei malati di mente e comprenderne le problematiche può arricchire molto, ma spesso non è economicamente sostenibile - e forse nemmeno psicologicamente consigliabile. Per non parlare di andare sei mesi nello spazio o infiltrarsi in un'organizzazione criminale: a un giornalista non si può chiedere di cambiare se stesso come parte integrante del proprio lavoro, non si può chiedere di diventare una spia o un astronauta solo per avere una storia da raccontare. Non lo si può chiedere, ma il giornalista è libero di farlo.
C'è però una tipologia di esperienza che nemmeno con tempo, soldi e coraggio si può scegliere di vivere: quella della malattia. E probabilmente non c'è esperienza più forte e capace di trasformare le persone quanto la sofferenza fisica o psicologica. Forse è proprio per questo che la riflessione sulla scrittura che trasforma gli autori è opera di una giornalista che si occupa di medicina.
Un esempio su tutti è il futuro malato di Còrea di Huntington Charles Sabine. Raccontare in prima persona di una malattia che la sua famiglia ha già conosciuto, e che lo interesserà direttamente, dona ai suoi racconti un carattere unico. Dopo averlo ascoltato, ho faticato a tornare all'idea di scrivere pezzi in mezz'ora su argomenti conosciuti il giorno stesso. Mi è sembrato inconcepibile pensare al numero di battute dei testi e alle persone che potrebbero essere infastidite da quel che scrivo, prima ancora del messaggio da comunicare, prima della storia, prima delle emozioni. È vero anche che in un ipotetico mondo perfetto in cui chi scrive è soltanto colui che ha subito una trasformazione, forse non avrei così tanti argomenti di cui parlare, e gli argomenti nuovi arriverebbero ben dilatati nel tempo. In quel mondo perfetto, il lettore non spenderebbe tempo a leggere cose di poco valore, e alla qualità del lavoro corrisponderebbe un adeguato compenso.
Peccato che questo mondo perfetto non esista. Ma non è di certo lamentandosi che il mondo imperfetto diventa perfetto. In fondo, come ha detto oggi Gianni Riotta a CNA NeXT, "la società civile non è meglio della politica, i giovani non sono meglio dei vecchi, gli imprenditori non sono meglio dei politici", siamo tutti parte della stessa società. E io aggiungo "i giornalisti di qualità non sono necessariamente meglio di quelli di quantità". Se esistono entrambe le categorie, ci sarà per forza un valido motivo sociale.
Però, se preparare un prodotto giornalistico corrispondesse a cucinare una minestra d'arzilla (metafora presa in prestito da Luca De Fiore), una conclusione potrebbe esserci. Scegliere con cura gli ingredienti, fare attenzione alle misure, utilizzare un brodo chiaro e non allungato, non esagerare con il sale: tutte azioni che implicano riflessione, concentrazione, attenzione e cura per i dettagli. E se bastasse questo per subire la trasformazione?