Quando mi si chiedeva cosa volessi fare da grande, rispondevo sempre nello stesso modo: “Farò la scrittrice”. Ho in parte realizzato questo proposito, e mi piace, da quando lavoro nell’editoria, osservare chi “scrittore” si definisce.
Poche settimane fa mi è capitato di prendere un aperitivo con una persona che adotta questo appellativo quando deve parlare del suo lavoro, e, nonostante effettivamente non ci campi, ho sentito un sommo rispetto per lei, quando mi ha detto che si sta perfezionando con dei corsi.
Mi è servito tantissimo il contatto con il mondo dell’editoria per cambiare idea a questo proposito. Ho toccato con mano le affermazioni di chi si definisce “scrittore”, ma afferma che no, non si tratta del suo lavoro. Ci tiene a precisarlo, e lo fa con molta enfasi.
Penso che tale affermazione sia profondamente pericolosa: non c’è nessuna necessità di campare attraverso la scrittura, ma penso che sia importante non considerarla un hobby come tanti, uno di quei passatempi che spezzano le sere e che non possono arrivare a livello più alto per via della mancanza di tempo.
Penso che tanta della letteratura effettivamente brutta con cui ho avuto a che fare in questi mesi sia legata a questo approccio “seduto” all’atto dello scrivere, visto come un contesto in cui è possibile esternare i propri moti interiori senza guida solo perché l’intermediazione tra il testo e chi lo idea diventa ogni giorno sempre più impalpabile.
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