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da Guareschi – Diario clandestino 1943-1945

Creato il 05 febbraio 2011 da Ivy

guareschi diario clandestino

Postero mio diletto,

(…) I colonnelli sognano?

Sì: i colonnelli sognano come i comuni mortali di complemento. E sognano tutto quanto può sognare un comune mortale di complemento.

Non esiste nel regolamento restrizione alcuna al riguardo dei sogni, e non è raro perciò il caso di colonnelli in Servizio Permanente Effettivo i quali sognano addirittura angeli. Angeli dai capelli d’oro e dalle ali azzurre, angeli che scendono dal cielo planando dolcemente come gli angeli sognati dai poeti e dai fanciulli, ma che, atterrando davanti ai colonnelli, si mettono sull’attenti con uno schiocco di tacchi secco e preciso. Takk!

Se esistono, nel nostro o nell’altro mondo, creature mortali o immortali che (per ragioni tecniche e artistiche) debbono camminare scalze, queste sono proprio gli angeli. Ma è tale e tanto, nei colonnelli, l’amore per lo schiocco, che gli angeli stessi (quando intervengono nei sogni di qualche colonnello) non trascurano mai d’infilarsi un buon paio di stivali corredati – nel caso specifico di angeli di cavalleria e d’artiglieria – di robusti e tintinnanti speroni. E si presentano sempre così, con un formidabile schiocco di tacchi.

Orbene, postero mio diletto, sapendo quale importanza i colonnelli annettano allo schiocco, tuo padre, anima gentile, trovandosi in quotidiano contatto con un vecchio colonnello, poteva trascurare il particolare dello schiocco?

E lo schiocco fu appunto la mia maggiore preoccupazione d’allora, tanto più in quanto ben sapevo che, solamente con una adeguata serie di buoi schiocchi, avrei potuto sfatare la leggenda della mia “scarsa attitudine militare”.

Ma il destino mi fu sempre avverso.

Cambiai tre paia di stivaloni e sei paia di speroni: feci blindare i tacchi, richiesi il parere autorevole d’un pedicure e di un maniscalco, presi ripetizioni private da un ex maresciallo di cavalleria, studiai lungamente davanti allo specchio, feci un calco in gesso dei miei piedi per meglio comprenderne l’impostazione, mi allenai, studiai con amore, ma all’applicazione pratica, era come se i miei tacchi fossero di gelatina di pollo e i miei speroni di burro: Ploff….

E ogni ploff accendeva nel nobile viso del signor colonnello una smorfia di dolore.

La prova più tremenda – e si ripeteva due volte ogni giorno – era quella della mensa. Allora non soltanto il signor colonnello era spettatore della mia miseria, ma un intero consesso di brillanti ufficiali.

Entravo nella sala e, appena mi avvistavano, si faceva silenzio di tomba e gli occhi erano tutti sopra di me, e le orecchie erano tutte tese. Salutavo col braccino graziosamente levato, come era prescritto allora, e battevo i tacchi con disperata forza.

Come se un pezzo di burro cadesse in un mucchio di farina: Ploff…

Il signor colonnello scuoteva il capo sospirando e tutti riprendevano a mangiare mentre io vedevo accendersi sopra la testa d’ognuno dei presenti una di quelle nuvolette famose dei giornali per bambini e, dentro ogni nuvoletta, era scritto a caratteri fiammeggianti: “Scarsa attitudine militare”.

Mi misi d’accordo con un sottotenente effettivo abilissimo negli schiocchi, il quale sedeva al posto più vicino alla porta.

Io sarei entrato e, mentre salutavo, lui avrebbe schioccati di tacchi di sotto il tavolo. Ricorsi cioè al doppiaggio, ma, dopo due sole prove, abbandonai l’impresa: la prima volta lo schiocco avvenne un buon minuto dopo del mio scatto; la seconda lo schiocco avvenne mentre io stavo ancora camminando.

E così continuai i miei ploff, e il signor colonnello ne soffriva come se, ogni volta, gli conficcassi uno spillone nel cuore.

Ploff! Ploff! Quante volte udii il dannato, vergognoso ploff?

Ma una mattina d’autunno, mentre io ero “nei ranghi” in mezzo al cortile d’una caserma, squillò l’attenti e – come dicevo al principio della mia storia – accadde qualcosa di meraviglioso.

I miei tacchi cozzarono e si udì uno schiocco formidabile: Takk!

“Finalmente!”, esclamai trionfante.

Poi guardai i mei piedi e tutto fu chiaro, e io mi sentii meno trionfante: non calzavo più i soliti stivali, ma due zoccoli con suole di legno alte sei centimetri.

Ero prigioniero.

Fu così, postero mio, proprio così. E la prossima volta ti racconterò come ci arrivai, nel cortile di quella grande caserma polacca.

Nel frattempo saluta la mamma, la nonna e la Carlottina, e fa il bravo a scuola, e impara a contare fino al numero 6865. Che poi sono io,

tuo padre.

Lager XB – Sandbostel – 1944

da Guareschi – Diario clandestino 1943-1945
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