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In una guerra che aveva visto la tragedia della Polonia, il crollo della Francia e della Jugoslavia, nessuno spettacolo fu più tragico del disfacimento della compagine italiana.
Delle forze armate, la sola marina eseguì ordini precisi e raggiunse in gran parte i porti alleati; l'aviazione praticamente non esisteva più, l'esercito entrò nel caos. In tre giorni la resistenza organizzata fu soffocata quasi dovunque.
Roma, intorno a cui Badoglio aveva concentrato cinque divisioni, si arrese a due divisioni tedesche; abbandonata all'arbitrio dei comandanti militari, senza un responsabile politico, senza una voce che la sostenesse, la città visse tre giorni di angoscia e di entusiasmo, ma la volontà di resistere della popolazione non servì contro gli intrighi dei generali. Nelle altre città manifestazione d'inettitudine, viltà, aperti tradimenti dei capi sabotarono la resistenza. L'armata dei Balcani, forte di quasi trenta divisioni, si sfasciò come un frutto marcio: immense colonne di fuggiaschi raggiunsero la costa sotto la protezione dei patrioti jugoslavi i quali si limitarono a toglier loro armi e vestiario. Tutte le strade d'Italia si coprirono di sbandati che portarono da un capo all'altro della penisola l'immagine vivente dell'umiliazione e della sconfitta.
Le responsabilità dirette di questi avvenimenti, le ragioni dei singoli episodi saranno discusse ancora per molto tempo. Certo il re e i capi militari ne portano il peso maggiore: la loro viltà e la loro inettitudine sono costati all'Italia quasi quanto i delitti dei fascisti. Certo un intervento più generoso, soprattutto più fiducioso, degli alleati avrebbe modificato notevolmente la situazione: Roma, per esempio, si poteva tenere ed evitare così il senso della catastrofe totale. Ma le responsabilità storiche che confluiscono in questa crisi di pochi giorni superano il gruppetto di uomini che si trovavano momentaneamente in primo piano; e la lezione diretta che noi possiamo trarne, oltre a un generico sdegno, è la certezza del fallimento della classe dirigente italiana: questo fatto, mascherato per anni dietro ogni sorta di equilibrismi, oggi scoperto e evidente come una piaga incurabile.
I soldati che nel settembre scorso traversavano l'Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un'oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l'ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti: La caduta dell'impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione. Poteva scomparire in modo pacifico e i suoi postumi potevano essere curati: le giornate di settembre esclusero questa possibilità e gettarono il paese nelle estreme convulsioni. Tornò il terrore sulle città italiane, appoggiato all'agonizzante potenza hitleriana, e il fantomatico Duce di Verona cancellò il Duce dell'autoambulanza, restituì alla reazione la sua maschera tragica. Ormai l'Italia uscirà da questa crisi attraverso una prova durissima: la distruzione delle sue città, la deportazione dei suoi giovani, le sofferenze, la fame. Questa prova può essere il principio di un risorgimento soltanto se si ha il coraggio di accettarla come impulso a una rigenerazione totale; se ci si persuade che un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere salvato e riscattato soltanto da una vera rivoluzione.