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Ricordo di avere detestato Leopardi da adolescente. Perché? Forse perché mi veniva presentato come un giovane aristocratico scorbutico e altezzoso, con l’attenuante di essere storpio e sfortunato in amore. Non ricordo da chi ho assorbito queste nozioni, ma certamente si trattava di qualche insegnante che non lo amava molto.In modo incongruente ero ipnotizzata e commossa dai versi de “L’infinito”, “Alla luna”, “Il passero solitario”, ”A Silvia”, in cui mi pareva che bellezza, melodia e sublimi pensieri si mescolassero per produrre qualcosa d’incomparabile. Allo stesso tempo mi irritava l’arroganza di quello che percepivo come un privilegiato verso il resto del mondo, il suo scherno verso gli umili e i loro innocenti passatempi. Vedevo la perfezione della poesia e la meschinità dell’anima. In realtà non avevo capito quasi nulla.
L’opinione si modificò in parte durante i corsi universitari che approfondivano l’arte – e la vita, ma senza necessariamente collegare inestricabilmente la prima alla seconda – del poeta. Studiai oltre ai Canti le Operette morali e lo Zibaldone. Ero confusa dalla profondissima conoscenza che dimostrava di quasi tutto lo scibile umano; questo tuttavia non me lo rendeva più simpatico. Ero convinta del suo valore artistico e dalla sua erudizione, nonché delle sue idee liberali, agnostiche e anticonformiste che mi erano state rivelate; per il resto mi lasciava fredda.
Poi è arrivato Il giovane favoloso di Mario Martone, il regista di cui avevo già visto e apprezzato Noi credevamo. Ero curiosa di vedere la sua resa del tema e quindi sono andata a vederlo.
Devo dire che non mi ispirava la scelta del protagonista Elio Germano, perché nei film che avevo visto fino a quel momento non mi era piaciuto molto. La sua caratterizzazione tende alla caricatura, anche in questa pellicola, ma forse il gigionismo non è prescindibile dall’interpretazione. Dopo tutto se si vuole interpretare Leopardi non si può farlo sottotono. Però, però… ho trovato una certa credibilità espressionistica; la sofferenza interiore e il dolore fisico si fanno persona, più che personaggio. Gli slanci, le passioni, la furia impotente contro l’ambiente aristocratico, conservatore e bigotto sono piuttosto convincenti.
Sebbene non possa ancora definirmi del tutto “convertita” al culto leopardiano, devo ringraziare Germano, Martone e il cinema per avermi avvicinato un po’ di più al poeta, che ormai non vedo più come il rampollo stizzoso e infelice della nobiltà feudale recanatese e papalina. DaniBlue
26 ottobre 2014
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