Ricordo un documentario del 1974, Dentro l’architettura, trasmesso in più occasioni da RaiSat, che illustra il World Trade Center allora appena edificato. Durante il filmato appare inaspettata un’immagine: un jet solca il cielo e passa dietro una delle Twin Towers. L’effetto ottico produce la sconvolgente sensazione che esso vada a schiantarsi contro.
Per associazione d’idee rivedo il mitico epilogo di King Kong sull’Empire State Building. E L’inferno di cristallo, con quelle scene di panico sul gigantesco grattacielo in fiamme. Independence Day, quando gli alieni sbriciolano la Casa Bianca e (ancora!) l’Empire State. Ripenso quindi a Godzilla che demolisce mezza Manhattan. E al tirannosauro di Jurassic Park II che semina terrore e morte in una metropoli.
La distruzione del grattacielo – simbolo del lavoro, del progresso, dei valori di un’intera società – pare essere una singolare e inquietante costante nel repertorio filmico americano.
"Il cinema è prolungamento della vita e la vita del cinema", sosteneva François Truffaut. Sui due lati dello stesso identico schermo.
C’è una frase di Ermanno Olmi: "Se a volte sembra che il cinema precorra la vita, è perché i suoi autori riescono a rappresentare le paure inconsce della gente".
Riprendo in mano un celebre libro di Christian Metz, Cinema e psicoanalisi. Seguendo i binari della semiologia, l’autore analizza come lo spettatore si rapporta con le immagini, in una commistione di richiami tra un gusto puramente voyeuristico e la necessità di liberarsi dalle proprie ossessioni. (Insomma: ogni volta si riapre La finestra sul cortile).
Il cinema mette in scena le angosce ancestrali della nostra società, le rende visibili proiettandole su una tela bianca. Non sono soltanto insensate speculazioni: c’è qualcosa di vero nel fatto che sia in grado di gettare una luce preveggente sul mondo.