Pierre Jamet
Viaggiando, ho capito profondamente di non essere un viaggiatore. Non che prima non lo sapessi. Con il pensiero ho sempre voluto viaggiare l'intero mondo e al di là, se possibile. Con il corpo mi riusciva difficile. Mi sono detta poi che se sforzo un po' la mia carne, forse lei può trovare piacere unendosi al pensiero che ama viaggiare. Magari era solo pigrizia. Così che mi sono mossa. Io e l'aereo non era una storia d'amore. D'altronde non mi sono mai piaciute le situazioni che non offrono scappatoie, non dico per salvarsi la vita, ma almeno salvarsi dalla noia, bella signora che mi scova ovunque abbracciandomi fino allo strazio. La noia è una sorta d'aereo, ti culla a suo piacimento nei tragitti lunghi, ti ripone in una nuvola di letargo, il corpo e la mente cominciano a ingrigirsi, e proprio come in aereo non c'è via di fuga se non a viaggio compiuto. Bernanos e io saremmo stati d'accordo a proposito della noia. Ecco cosa scrive nel suo Journal d''un cure de campagne: «Je me disais donc que le monde est dévoré par l'ennui. C'est une espéce de poussière. Vous allez et venez sans la voir, vous la respirez, vous la mangez, vous la buvez, et elle est si fine, si tènue qu'elle ne craque méme pas sous la dent. Mais que vous vous arrétiez une seconde, la voilà qui recouvre votre visage, vos mains. Vous devez vous agiter sans cesse pour secouer cette pluie de cendres». Il miglior modo che ho trovato per scuotermi di dosso un po' di ceneri e scappare alle tragiche offerte che può riservare l'esistenza è l'abitudine che mi sono data ovunque io mi trovo: ovunque io mi trovo, cerco di sedermi vicino a una porta. Una soluzione eccellente, se applicata in aereo. Quando la luce verde e sorridente della scappatoia mi faceva l'occhiolino, io mi lasciavo vivere. Le prime volte che ho preso l'aereo mi preparavo alla morte. Mi stavo recando con le mie gambe dritta nella bara. Ecco, ci sto andando da sola, è una mia scelta, mentre potrei rifiutarmi di partire, basterebbe pronunciare il liberatorio NO, non voglio partire, non voglio viaggiare, non ho bisogno di viaggiare ! Questi erano i pensieri che cominciavano a farmi visita le settimane prima della partenza. Gli ultimi giorni, poi, l'agitazione s'impossessava di me come i Greci di Troia, con la stessa furbizia. Io per prima non mi accorgevo di essere dilaniata a tal punto dalla tensione. La morte rimane una cosa seria. Difficile prenderla alla leggera, sa imporre rispetto ed esige una considerazione assoluta. Il giorno della partenza mi vestivo male (che bisogno c'era? Ormai!) Non sono giunta allo stato di So-crate, di volere e poter morire bellamente, sono ancora lontana da questa sublime distanza con la mia morte, accidenti! - quindi, una vecchia tuta da ginnastica sarebbe andata benissimo, un paio di scarpe da tennis, non mi curavo di nascondere il mio pallore congenito. In cambio, l'inquietudine si era premurata di togliere meticolosamente le ultime gocce di sangue dalle mie guance. Gli occhi si deformavano, qualcosa li tirava in giù (la gravita della terra moltiplicava la sua potenza?), le labbra si seccavano e screpolavano più del solito. Non è facile andare verso la morte, soprattutto quando puoi evitarla. Vale la pena rischiare tutto solo per andare a Barcellona, Kyoto, Tirana? E andare a Sarajevo come stavolta, solo per consolare un amico triste ? Mirsad è triste perché l'Occidente non capisce le verità di noialtri dell'Est, dell'ex Est. - Perché noi abbiamo delle verità ben diverse dalle loro, - continua a ripetermi al telefono. È proprio necessario andare a consolare l'amico che sta male, che è chiuso in casa da cinque mesi, che non mangia più e non beve più, che vuole e non vuole morire, solo perché la letteratura dei paesi sofferenti non riesce a incidere quanto deve ? Sì, è necessario, perché Mirsad sta proprio male. Ha bisogno di amici attorno, anche solo per dargli una zuppa e prestare orecchio ai suoi lamenti. È importante avere vicino qualcuno mentre ti lamenti, quando si è da soli si smette di lamentarsi. L'esigenza di un altro orecchio è propria al lamento. Così, devo andare a essere un orecchio attento a Sarajevo. Almeno per dargli una zuppa, altrimenti lui morirà. Dicono che ha sempre la febbre alta, da cinque mesi a questa parte non riesce a mandarla giù. Si lascerà morire, lo so perché lo conosco, ha delle passioni che lo divorano; e poi la sua morte roderà la mia coscienza finché avrò vita. Finché avrò vita. Vale la pena di salire su un aereo per andare a parlare della letteratura dei paesi ricchi e potenti che dettano le loro leggi, la loro cultura ? Andare a morire per discutere di come la Serbia, l'Albania o altri paesi in difficoltà non riescono a imporre la loro cultura ? - È sempre la vecchia storia del pesce grande che mangia il piccolo, ma perché accidenti noi restiamo sempre il pesce piccolo ? - è ancora Mirsad al telefono. Gliela farò di pesce questa zuppa. E mentre la mangia gli dirò: - Ecco, tu sei il pesce grande che sta mangiando il piccolo ! Desensibilizzazione, così si chiama la mia terapia. Speriamo che funzioni, almeno Mirsad potrà uscire dalla sua tana dove non alza più le tapparelle, respirare un po' d'aria fresca e scrivere le sue poesie.