Fin da quando il concetto di "insetti sociali" (che comprende api, termiti, formiche e vespe) è stato coniato ed è entrato nell'uso, gli zoologi più esperti, così come il pubblico profano, hanno nutrito la ferma e quasi indiscussa convinzione che la "socievolezza" degli stessi fosse limitata ai membri della colonia di appartenenza. Quest'ultima rappresenta il luogo in cui tali insetti sono venuti al mondo e al quale fanno ritorno ogni giorno della loro vita, portandovi il bottino delle loro scorribande in cerca di cibo per condividerlo con il resto della popolazione autoctona dell'alveare. La possibilità che qualche ape o vespa operaia potesse "migrare", varcando i confini tra una colonia e l'altra e abbandonando l'alveare di nascita per unirsi ad un altro alveare - quello di elezione - era considerata (ammesso che fosse contemplata) come un'idea incongrua. Vigeva invece l'assioma che i membri "autoctoni", nati all'interno della colonia e dunque "legittimi", avrebbero prontamente scacciato il cane sciolto, eliminandolo se questi non si fosse allontanato.
[...] Ciò che passa per "logico", tuttavia, al pari di quello che viene ritenuto "ovvio", tende a cambiare col tempo. Si trasforma assieme alla condizione umana e alle sfide che pone. Contrariamente a tutto quello che si sapeva (o meglio si credeva di sapere) da secoli, l'équipe londinese ha scoperto a Panama che una cospicua maggioranza di "vespe operaie", il 56 per cento, cambiano alveare nel corso della loro vita; e non semplicemente migrando in altre colonie in qualità di visitatori temporanei, mal accetti, discriminati ed emarginati, a volte energicamente perseguitati, e sempre visti con sospetto e ostilità, bensì come membri "legittimi" e a pieno titolo (si sarebbe tentati di dire "autorizzati") della "comunità" adottiva che, al pari delle operaie "autoctone", si procurano cibo, nutrono e accudiscono la nidiata locale. L'inevitabile conclusione è che gli alveari oggetto della ricerca sono di norma "popolazioni miste", al cui interno le vespe native e quelle immigrate vivono e lavorano guancia a guancia e spalla a spalla, divenendo, almeno per gli osservatori umani, indistinguibili le une dalle altre se non con l'ausilio di identificatori elettronici.
Le notizie giunte da Panama rivelano innanzitutto uno straordinario ribaltamento di prospettiva: quelle convinzioni che fino a non molto tempo fa sembravano riflettere lo "stato di natura" si sono dimostrate, in retrospettiva, nient'altro che una proiezione sugli insetti di preoccupazioni e prassi fin troppo umane (prassi che oggi, tuttavia, perdono importanza e sbiadiscono nel passato) degli studiosi. È bastato che i ricercatori, di una generazione un poco più giovane della precedente, portassero nella foresta panamense la loro - e nostra - esperienza dei nuovi stili di vita, acquisita e assorbita nell'ormai cosmopolita Londra, patria "multiculturalizzata" di diaspore intrecciate, per "scoprire", com'era doveroso, che la fluidità dell'appartenenza e l'eterno mescolarsi delle popolazioni sono la norma anche tra gli insetti sociali: una norma apparentemente attuata in modo "naturale", senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge introdotti frettolosamente, corti supreme e centri di permanenza temporanea per richiedenti asilo.
In questo caso, come in molti altri, la natura prasseomorfica della percezione umana li ha spinti a scoprire "là fuori nel mondo" quello che hanno appreso a fare e fanno "qui a casa", e ciò che nella testa o nel subconscio di tutti noi rappresenta l'immagine di "come stanno veramente le cose". La differenza tra le "mappe cognitive" presenti nel bagaglio mentale degli entomologi di vecchia generazione e quelle acquisite o adottate dai ricercatori più giovani riflette il passaggio, nella storia degli Stati moderni, dalla fase del nation-building alla fase "multiculturale"; più in generale, il passaggio dalla modernità "solida", incline a trincerare e fortificare il principio della sovranità territoriale, esclusiva e indivisibile, e a circondare i territori sovrani con frontiere impermeabili, alla modernità "liquida", con le sue linee di confine sfocate e altamente permeabili, l'inarrestabile (anche se biasimata, sofferta e respinta) svalorizzazione delle distanze spaziali e della capacità difensiva del territorio, e un intenso traffico umano attraverso qualsiasi tipo di frontiera. E, sul piano della prassi quotidiana degli esseri umani, dalle pressioni assimilative e dalle aspettative di un'imminente uniformità, alla prospettiva di convivere permanentemente con la varietà e la diversità.
La popolazione di quasi ogni paese, ormai, è una somma di diaspore. E quella di quasi ogni città di una certa dimensione è oggi un aggregato di enclaves etniche, religiose e di stili di vita in cui la linea divisoria tra insider e outsider è al centro di accese controversie, mentre il diritto a tracciare tale linea, a mantenerla intatta e a renderla inattaccabile rappresenta la principale posta in palio nelle scaramucce per l'autorità e nelle battaglie per il riconoscimento che ne derivano. La maggior parte degli Stati ha ormai superato e si è lasciata alle spalle la fase del nation-building, per cui non è più interessata ad "assimilare" gli stranieri in arrivo (ovvero costringerli a disfarsi e privarsi delle loro identità distinte e a "dissolversi" nella massa uniforme dei "nativi"), e dunque gli scenari della vita contemporanea e il filo che costituisce la trama del vissuto rimarranno probabilmente proteiformi, variegati e caleidoscopici per molto tempo a venire. Per quel che può contare, e per quanto ne sappiamo, potrebbero anche continuare a cambiare in eterno.