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Da Livio Romano un ‘diario’ per capire la scuola

Creato il 05 dicembre 2012 da Cultura Salentina

di Anna Rita Longo

diario-elementare
Sulla scuola tutti si sentono in grado di dare pareri illuminati, di salire sul pulpito e di pontificare sulle carenze di un’istituzione che ha pochi difensori e molti critici. Quello della scuola è, però, un microcosmo che segue leggi tutte sue, incomprensibili per i non addetti ai lavori e spesso anche per gli addetti stessi.

I libri degli insegnanti scrittori – ormai un genere letterario a sé – hanno il pregio di dar voce a una realtà altrimenti difficile da interpretare e, a maggior ragione, da giudicare.

Ma il Diario elementare di Livio Romano non è soltanto questo. Non ci troviamo di fronte a un’inchiesta verità sul tema “che cosa significa insegnare oggi”, che si muova attraverso quartieri malfamati e bagni privi di carta igienica, né alla retorica accorata di un ennesimo emulo del professor Keating dell’Attimo fuggente. Livio Romano è soprattutto un narratore di talento e per questo il pregio principale del suo Diario elementare è quello di mettere in mano al lettore le chiavi della sala insegnanti e di farlo accomodare accanto a lui nell’aula magna dove si sta consumando la tragicomica pantomima del collegio docenti. E se non avete mai partecipato a una riunione tra insegnanti ecco che Romano vi permette di sapere che aria vi si respiri e quanto poco questi ameni ritrovi abbiano da invidiare agli affreschi rabelaisiani.

Ma non sono queste le parole per le quali, personalmente, sono più grata a Livio Romano. C’è un passo, più o meno alla metà del libro, nel quale l’autore fa la sua personale controproposta ai corsi d’aggiornamento, meravigliosi contenitori di aria fritta pronta per lo scolastico consumo (chiaramente in forma cartacea). Perché – suggerisce Romano – non consentire semplicemente agli insegnanti, a titolo pressoché gratuito, di vedere film d’autore, condividere belle letture, andare a teatro e all’opera, ascoltare conferenze letterarie, visitare mostre? Quando torneranno nelle loro classi avranno gli occhi traboccanti di tutto il bello che hanno incontrato e questo non può non avere riscontri nella loro attività di formatori. D’altra parte, a forza di restare a contatto con il grigio e il mediocre si finisce col rendere tale anche il proprio stile di insegnamento. Il che va evitato come la peste perché – come dice l’autore – le parole di un insegnante hanno il potere, talvolta, di incidere così tanto nella vita di un ragazzo da imprimergli una svolta. Quasi tutti gli insegnanti, in cuor loro, ne sono consapevoli, anche se, per lo più, ribadiscono di non contare nulla, forse intimoriti da un compito che «fa tremar le vene e i polsi». Il guaio è che spesso si deve navigare a vista e improvvisare. A ben pensarci – nessuno prima d’ora lo ha lasciato intendere con la stessa efficacia di Livio Romano – la scuola è come una grande commedia dell’arte con il più vago tra i canovacci. La riuscita dello spettacolo è tutta nella buona volontà degli attori, gli insegnanti, chiassoso ensemble di guitti gettati sul palco senza alcuna preparazione e spesso senza neppure i costumi di scena. Con tutto ciò, molto spesso, inaspettati, gli applausi scrosciano. E gli spettatori serberanno il ricordo della performance per tutta la vita.

Perché, autodenigrazione e disprezzo sociale a parte, abbiamo ancora bisogno di bravi maestri. E magari di una scuola che li aiuti. Speriamo che anche il ministro sia tra i lettori di Diario elementare.


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