Magazine Arte

Da Napoli a chissà dove “Bonne soirée”: un ritratto di Pino Daniele nel 1987 di Sergio Pasquandrea

Creato il 08 gennaio 2015 da Wsf

Pino-Daniele

Questo non sarà un necrologio. Il termine “coccodrillo”, con cui nel gergo giornalistico si indica questo tipo di articoli, dice già tutto sulla sincerità delle lacrime che vi vengono sparse.
Non sarà neanche un resoconto di quanto Pino Daniele sia stato importante per me; anche se Pino Daniele rappresenta un bel pezzo della mia adolescenza, e non solo della mia, a giudicare dalla quantità di messaggi che hanno circolato in rete negli ultimi giorni. Ma ho sempre ritenuto che il compito di chi scrive non sia quello spiattellare i propri fatti privati (sbaglierò? mah…)
E non sarà neanche una nota bio-discografica, perché di quelle è già pieno il web, da Wikipedia in giù.
Quando muore un artista, il modo migliore per ricordarlo è parlare della sua arte, ed è proprio questo che vorrei fare.

Pino Daniele ha avuto una precoce esplosione di bruciante creatività.
Dopo il notevole ma ancora acerbo “Terra mia” (1977), sfoderò una micidiale sequenza di capolavori, che copre grosso modo la prima metà degli anni Ottanta: diciamo da “Pino Daniele” (1979) fino a “Musicante” (1984), con il culmine nello strepitoso “Sció” (1984), nel quale sono raccolte registrazioni della tournée nazionale dell’estate-autunno ’84. (Ma si ascolti anche il bellissimo “Pino Daniele Live @ RTSI”, Sony 2001, registrato nel 1983 durante un concerto alla TV svizzera, i cui video sono anche disponibili su YouTube, ad esempio qui: https://www.youtube.com/watch?v=5RZeD3uL_HM).
Uno dei miei pallini è guardare l’età degli artisti quando incidono: Pino era nato nel 1955, quindi stiamo parlando di un musicista fra i ventiquattro e i ventinove anni. Dischi come “Nero a metà” (1980), “Vai mo” (1981), “Bella mbriana” (1982) iniettarono nella musica leggera italiana dosi massicce di blues e di jazz, fuse senza soluzione di continuità con la tradizione melodica napoletana e messe al servizio di un talento poetico folgorante e a una perizia strumentale immacolata. Con il contributo essenziale di una band irripetibile: gente come Rino Zurzolo, Agostino Marangolo, Tony Esposito, James Senese (suo primo leader nei leggendari Napoli Centrale), Ernesto Vitolo, Tullio De Piscopo, per non parlare degli ospiti come Wayne Shorter, Nana Vasconcelos o Alphonso Johnson.
Il suono di quei dischi, pur conservando tutta l’aria del tempo, non è affatto invecchiato, anzi ha resistito perfettamente alla prova degli anni. Ascoltare per credere.

Poi c’è il Pino Daniele che, da metà anni Novanta in poi (il disco della svolta è “Che Dio ti benedica”, 1993) prese una direzione diversa, virò verso il pop e lo smooth jazz, collabora con Jovanotti, Eros Ramazzotti, Irene Grandi, accolse suoni di varia provenienza. Lì ho smesso di seguirlo, quindi non ne parlerò, perché non è mia abitudine giudicare ciò che non conosco.

Ciò di cui vorrei parlare sono i suoi dischi forse meno noti: quelli che stanno nel mezzo, tra i due periodi: lavori come “Ferryboat” (1985), “Bonne Soirée” (1987), “Schizzechea” (1988, fra parentesi il primo suo che io abbia mai ascoltato), “Mascalzone latino” (1989), “Un uomo in blues” (1991, con ‘O scarrafone che fu una grossa hit in classifica).
C’è chi ci vede i primi segni di declino, ma sarebbe ingiusto definire questo un Pino “minore”, perché ci sono brani splendidi come Anna verrà, Gesù Gesù, Carte e cartuscelle, Che soddisfazione, o la struggente Qualcosa arriverà, scritta per la colonna sonora del film “Le vie del Signore sono finite” (1988) dell’amico Massimo Troisi. Un periodo “di transizione”? Forse, ma la definizione non mi piace, perché egli stava senz’altro cercando di rinnovare il suo stile, ma sono convinto che un’opera vada giudicata il più possibile per sé stessa, e non per ciò che l’ha preceduta e seguita.

Il lavoro più interessante (non necessariamente il più riuscito) di questo periodo è secondo me “Bonne soirée”, che è anche uno dei suoi dischi più sottovalutati, se non proprio svalutati, o persino dimenticati.
Il precedente “Ferryboat” riprendeva ancora, in larga parte, sonorità del periodo precedente. Qui siamo di fronte a una frattura piuttosto drastica. A partire dal sound: rivestito di un riverbero talmente onnipresente da essere, al primo ascolto, persino fastidioso (molto meglio il suono del vinile, comunque, che non quello del cd, rimasterizzato maluccio). Sonorità che virano sempre più decisamente verso il Medio Oriente da una parte, verso la fusion dall’altra. E testi che lavorano in vena allusiva, surreale, che Pino aveva sviluppato come sua cifra distintiva. E l’italiano che si fa sempre più strada accanto al napoletano (o a quell’esperanto italo-anglo-ispano-napoletano che era il suo personale grammelot).
Anche il gruppo è rinnovato, quasi tutto internazionale, con unico partenopeo, il tastierista Bruno Illiano che poi resterà con lui anche in vari dischi successivi. Alle percussioni c’è il francese Mino Cinelu, al basso l’inglese (nonostante il nome) Pino Palladino, che nell’ambiente è poco meno di una leggenda, ed è inglese anche il sassofonista Mel Collins, molto attivo sulla scena progressive. Il batterista Jerry Marotta è americano, anche se di palesi origini italiane, e può vantare dieci anni nella band di Peter Gabriel, e scusate se è poco. Su Boys in the Night c’è un cameo di Larry Nocella, grande sassofonista jazz salernitano, purtroppo destinato a scomparire di lì a due anni, appena quarantenne.

Il primo brano, quello che dà il titolo al disco, mette subito le carte in tavola. Su un testo che accosta alla sua maniera immagini, frammenti di pensieri e di realtà, c’è una melodia che svicola tra funk e melismi arabeggianti. (Lo stacco di batteria in controtempo, prima del ritornello, è stata una delle croci del me stesso adolescente. Per anni ho provato, senza riuscirci, a contarla. Oggi ho capito: forse).
Vita mia sembra un preannuncio di quelle morbide ballate pop che più avanti faranno la fortuna del Pino anni Novanta – ma con qualche inattesa giravolta armonica in più – ed è forse uno dei brani su cui più si è accumulata la patina del tempo, con quei sintetizzatori che fanno tanto tanto anni Ottanta. Il sanguigno funk di Guardami in face è, se vogliamo essere cattivelli, un po’ la bella copia di quel che sarà il fortunato Che Dio di benedica sul disco omonimo di sei anni dopo. Lo scoppiettante e ironico Baccalà (“tu si’ tutto scemo / e nun capisce quasi niente / invece d’essere cuntento / ca si’ nato baccalà”), aperto e intercalato da una chitarra pesantemente distorta, è cantato quasi interamente in napoletano con inserti in spagnolo, una formula che Pino riprenderà su “Schizzechea” per Cumbà. Nu poco ‘e sentimiento introduce qualche solare sfumatura world prima di esplodere in un fenomenale ritornello dalle intricate modulazioni.

Boys in the Night, episodio a dire il vero un po’ opaco, apre quella che in origine era la facciata B (sì, eravamo ancora nell’era dei long-playing), seguito dalle tre tracce più solide fin qui: Mama e!, dalle tonalità deciamente etniche, l’atmosferico (è proprio il caso di dirlo) Aria e Scrack, brano con una strofa dal minaccioso andamento blues, un ritornello che tutto un sovraccarico wall of sound e una parte di chitarra che sembra un raga sotto acido.
Ma il capolavoro arriva in coda. Occhi grigi è l’unico brano (quasi) interamente acustico in un disco che invece gronda di sonorità elettriche. Una chitarra simile a un oud, una melodia quasi inafferrabile e un giro armonico ondivago sorreggono quello che è il più bel testo del disco: la realtà descritta con gli occhi malinconici e disincantati di un vecchio.
(Un’ulteriore traccia, Watch out, dalle tonalità fortemente fusion, non fu inserita nell’LP ma compare nelle ristampe in cd).

“Bonne soirée” non è un disco facile. Non c’è una canzone orecchiabile, un successo da juke-box, un ritornello da fischiettare, e sfido qualunque chitarrista dilettante a strimpellare uno di questi brani come si fa con Je so’ pazzo o Napule è (questi li so fare anch’io, ed è tutto dire).
“Bonne soirée” è forse il culmine di quel processo di sana e gioiosa ibridazione che aveva portato Pino Daniele a mettere in corrispondenza la sua Napoli con i punti più disparati del mondo.
Se volete un consiglio, ascoltatelo, magari più di una volta. Vi assicuro che ne vale la pena.

* * *

Occhi grigi

E mo sto buono a parte ‘a pressione
nun piglio café
sto accorto pure a te
sì sempre ‘a vita mia

‘E figlie so’ gruosse
quaccheduno è ‘nzurato
ognuno ‘a via soja
‘o munno è mmano a vuje
facitelo bbuono.

‘E viecchie nun se sfottono
e po’ fanno ‘e muorte
o no’ statte cu’ mme
quanti ccose che he ‘a sapè

Cu’ l’uocchie grigge hanno visto ‘a cursea
a notte ‘int’o suonno se murmulea

Nun fa’ rummore mo’ jesce ‘a ‘strazione
e ghià famme sentì
vicchiaia ca nun va
tutte c’hanna passà

Jesce surore pe’ fora ‘a stazione
o no’ statte cu’ mme
quanti ccose che he a sape’

Cu’ l’uocchie grigge hanno visto ‘a cursea
‘e bombe, ‘int’o suonno se murmulea

Io spenderei tutto il tempo per starti vicino
ma senza parlà
trent’ anne ‘e fatica e nun puo’ chiù aspettà
e ‘o càvero che fa ascì pazzo e nun se po’ suppurtà

* * *

E adesso sto bene a parte la pressione
non prendo caffè
sto attento anche a te
sei sempre la mia vita

I figli sono grandi
qualcuno è sposato
ognuno la sua strada
il mondo è mano a voi
fatelo bene

I vecchi non si sfottono
e poi fanno i morti
nonno stai con me
quante cose devo sapere

Con gli occhi grigi hanno visto la corsa
la notte nel sonno si mormora

Non fare rumore adesso esce l’estrazione
dai fammi sentire
vecchiaia che non va
tutti devono passarci

Esce sudore
fuori dalla stazione
nonno stai con me
quante cose devo sapere

Con gli occhi grigi hanno visto la corsa
le bombe nel sonno si mormora

Io spenderei tutto il tempo per starti vicino
ma senza parlare
trent’anni di fatica e non si può più aspettare
e il caldo che fa impazzire e non si può sopportare

Articolo di Sergio Pasquandrea


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :