Da questa settimana è nelle sale Piccola patria, il film di Alessandro Rossetto presentato allo scorso Festival di Venezia, nella sezione Orizzonti: la storia di due ragazze di un piccolo paese di provincia del Nord-Est italiano, Renata e Luisa, coinvolte in un pericoloso intreccio di emozioni e di sentimenti. Co-protagonista del film, nel ruolo di Renata, è la giovane attrice emergente Roberta Da Soller, trevigiana laureata in Lingue e Letterature Straniere a Venezia, di formazione prettamente teatrale, che si è avvicinata al cinema con la partecipazione alla pellicola di Rossetto e e con un piccolo ruolo nell’ultimo film di Carlo Mazzacurati, La sedia della felicità, che uscirà invece il 24 aprile. L’abbiamo incontrata per un’intervista in cui Roberta Da Soller ci ha rivelato elementi e concetti sul suo modo di approcciarsi al linguaggio delle arti e, nello specifico, del cinema.
Ciao Roberta, puoi raccontarci quali sono stati gli elementi basilari utili per la tua formazione di attrice?
Questa è una domanda che mi fa sempre molto pensare… la verità è che non ho una forte formazione alle spalle, o meglio non ho una formazione di tipo scolastico / accademico che abbia retto in qualche modo il mio lavoro nei due film fatti. Ho frequentato una scuola, dei corsi, dei laboratori, tutti hanno influito in modo decisivo non tanto sulla formazione attoriale quanto sulla direzione che mi interessava prendere. La scuola mi dava un’unica possibilità mentre la vita me ne offriva molte di più e capendolo ho iniziato a dare un senso diverso alla stessa parola “formazione”. Il lavoro dell’attrice per me è più una questione di sensibilità che di tecnica, e questa sensibilità che poi si manifesta con una spiccata memoria emotiva credo non si possa insegnare ma solo allenare. Ora mi sento di poter dire che ho praticato un buon allenamento fuori dagli ambienti accademici, nei posti che ho attraversato, negli incontri di questi anni, nei lavori che ho sviluppato. Questo perché il confine fra la professione e la persona è molto sottile a causa dell’uso che si fa del proprio corpo e della propria sensibilità, che diventano poi lo strumento di lavoro.
Che tipo di stimoli ti dà il cinema rispetto al teatro, o ancora, rispetto all’arte? Ci sono delle differenze sostanziali nell’approcciarti a queste arti o non cambia nulla?
Il punto è che ogni singolo lavoro, sia questo d’arte, cinema o teatro, necessita probabilmente di approcci diversi l’uno dall’altro. Non credo si possa fare una distinzione in categorie, anche all’interno della stessa macrosfera ogni lavoro è specifico; ecco quello che l’accademismo non ti offre, cioè la possibilità di sviluppare una sensibilità polimorfica, che riesca ad accogliere stimoli di qualunque tipo, siano essi stilistici o di contenuto. Anche un certo tipo di lavoro artistico spesso parla di come non si possa più pensare in categorie di competenze ma serva sempre di più una compenetrazione di esperienze e conoscenze in grado di aumentare la propria capacità critica in base alle situazioni. Quindi non saprei… rispetto agli stimoli che ricevo dai vari lavori, il teatro mi dà sicuramente più spazio per la ricerca, ma solo perché la posso portare avanti in modo indipendente; ora inizierò un lavoro con Ilaria Dalle Donne e lavoreremo a 360 gradi non solo come attrici ma anche a livello registico, e questo ci dà la possibilità di far entrare più aspetti del contemporaneo nel lavoro. Il cinema invece per me è molto interessante precisamente a livello attoriale, perché non sei sempre tu a poter determinare cosa succederà ma rispondi continuamente alle richieste del regista, una condizione che m’intriga molto, perché non sai bene che tipo di forma prenderà la tua interpretazione così da incuriosirti e stupirti. L’arte contemporanea invece è meno decifrabile in termini di stimoli perché richiede cose completamente diverse. Con Dora Garcìa era interessante stare dentro un lavoro di respiro più ampio, in cui il performer diventava d’appendice all’artista per mettersi in contatto diretto con il pubblico che attraversava il padiglione, quindi s’innescava un rapporto simbiotico con tutti i pezzi di cui era composta l’opera, fossero essi performer, video, conferenze, scritti etc… una sorta di desiderio deleuziano.
C’è stato un film in particolare che ti ha lasciato il segno come donna e come attrice?
Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Al di là della trama Jean Seberg mette in luce un aspetto della femminilità che emerge solo se sei sottoposto all’amore e al pericolo assieme, che è il modo delicatamente complice di stare di fianco a quel tipo di figura maschile. Alcune donne scelgono coraggiosamente di non darsi pace, di scegliere di attraversare il dolore perché solo attraverso quel sentimento così violento ci si allontana dall’indifferenza. Il titolo Fino all’ultimo respiro è bellissimo: scegliere di non sprecare nemmeno un afflato nonostante tutto è quanto di più vicino alla vita si possa ambire. Jean Seberg poi era un’attrice incredibilmente intrigante. Aveva questo stile inconfondibile. Sensibile donna di sinistra che diede il suo appoggio ai Black Panters e ai nativi d’America durante le lotte di quegli anni. Non ha mai vissuto il suo lavoro dentro la gabbia identitaria dell’attrice attribuendogli un valore in sé e per sé. Ed è inutile, questo modo di fare e di essere è leggibile anche nel suo fascino d’attrice come poche.
Piccola patria e La sedia della felicità. Alessandro Rossetto e Carlo Mazzacurati. Due visioni diverse del fare cinema?
Sì. A livello attoriale non ho sentito grossi contraccolpi, i due personaggi erano completamente diversi, ma sia Rossetto che Mazzacurati erano incuriositi dal regionalismo; in modo totalmente diverso e con obiettivi diversi hanno attinto dal nostro territorio alcune storie e immagini, e anche Carlo Mazzacurati mi diceva continuamente di non parlare italiano come facevano a Roma: “Abbiamo un accento così bello, tienilo! Che di romani ce ne sono già tanti”. Ovviamente riferito agli attori e a quel modo di recitare.
Un ricordo affettuoso riguardo Carlo?
Con Carlo ho condiviso un brevissimo periodo di riprese, un’esperienza, piccola, un incontro quasi in punta di piedi. Sul set ci ha diretti in modo delicato, generoso e preciso. Questo è ciò che ricordo con immensa gratitudine: quello strano e indefinibile trapasso d’esperienza.
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