Tra i numerosi quanto inutili canali che impoveriscono l’offerta televisiva del digitale terrestre, ce n’è uno che tutte le volte che passo di lì – in quei 5 minuti di cazzeggio che precedono il crollo nelle serate estive, momento che comprende una fase di zapping selvaggio tesa unicamente a trovare il programma di Paola Marella che si diverte a ristrutturare case altrui (Paola, se leggi questo post, mettiti in contatto con me: ho grandi progetti) – trasmette esibizioni live (poi capirete perché l’ho messo in corsivo) di un dj di fronte a centinaia di persone intente a ballare (buon per lui).
Una formula vecchia quanto l’uomo, almeno da quando esiste il giradischi, che però da circa quindici anni a questa parte si è resa protagonista di un processo di evoluzione nel posizionamento strategico delle due componenti fondamentali – dj e pubblico, appunto – all’interno del luogo adibito di volta in volta ad “area da ballo”. Mi spiego.
La discoteca, il club, il luogo chiuso, raramente concede risalto al selezionatore musicale, che sta dietro la console mentre la gente balla la sua selecta. Fin qui ci siamo. A un certo punto, con un paio di fenomeni quali il successo di gruppi privi di batterista e l’avvento della musica elettronica, si sono diffusi gli eventi a metà tra il concerto e il rapporto univoco dj – pubblico danzante. Quest’ultimo balla qualsiasi cosa il dj proponga (almeno un tempo era così) e si fa bellamente i c**** propri mentre il selezionatore in cuffia – a volte nascosto chissà dove, a volte in una sorta di pulpito, altre, come in alcuni locali un po’ improvvisati, con i piatti su un comune tavolino da bar, dentro il bar stesso a rischio di essere travolto dall’esagitato di turno (ho visto una volta un ubriaco rovesciarsi su una console di fortuna dietro alla quale Fabio De Luca aveva appena messo On my radio dei Selecter, la versione live se non ricordo male) – sciorina la sua playlist.
Nell’evento a metà tra il concerto e la selecta invece il dj sta sul palco e il pubblico danzante sta sotto, come nei concerti con musicisti (mi vien da dire veri ma non lo scrivo per non urtare la sensibilità né degli uni né degli altri) dotati di strumenti tradizionali. Già nei concerti dei Depeche Mode, almeno nella formazione più autorevole, cioè quella in quattro con Alan Wilder e prima che a Martin Gore venisse la pessima idea di imbracciare la chitarra, diciamo fino a Black Celebration, c’era un po’ di imbarazzo tra il pubblico. Stare lì in piedi rivolti verso il palco a sentire dischi, perché ora se vogliamo contarcela su va bene, ma non mi si venga a dire che a quei tempi i Depeche Mode suonavano dal vivo, visto che ballavano tutti, ogni tanto davano qualche manata sulla tastiera, e le versioni dei pezzi erano troppo fedeli a quelle registrate, dicevo stare lì a guardare un playback evoluto era un po’ una forzatura. C’era questa finzione collettiva in cui celebravamo tutti insieme da sotto la visione dei nostri beniamini. Ma chiamarlo concerto, onestamente, è troppo.
Passano gli anni e la cosa si ingigantisce pure. Nel 97, dopo aver pagato 60 mila lire per il biglietto del concerto dei Prodigy (poi se volete vi spiego perché l’ho fatto, a volte le cose si fanno anche per gli altri), ho assistito a una performance di base registrata più effetti speciali e coreografie varie, tanto che il gruppo supporto che ho dovuto pure sopportare, tali Marlene Kuntz, si sono distinti enormemente per grinta, suono e pathos. Tanto vale fare come i Kraftwerk, visti pochi anni fa già in versione pensionati i quali, sul palco come quattro impiegati di banca prossimi al ritiro della liquidazione dietro ad altrettanti Mac portatili, hanno eseguito una navigazione in internet con controllo di posta elettronica – perché secondo me proprio quello facevano – al cospetto del pubblico per 2 ore circa, con il valore aggiunto del video, alle loro spalle, che per lo meno dava il quid multimediale mancante.
Il livello successivo, a cui non ho mai voluto per scelta partecipare, comprende i performer tipo i Chemical Brothers. Per inciso: tutti i gruppi e i dj citati finora, a parte Prodigy e Marlene, sono tra i miei preferiti quindi la critica che muovo non è a loro, sia ben chiaro. I Chemical Brothers, potete dare un’occhiata per esempio qui ma avrete visto questi video decine di volte, si mettono dietro ai loro mixeroni e… e poi non si sa bene che fanno. Quanto suonano? Quanto mixano live? E trovarmi lì, in mezzo a migliaia di persone tutte rivolte a guardare due sul palco che magari giocano a solitario mentre sotto un cd suona tutto il concerto mi farebbe sentire un po’ sciocco.
Tutto questo per arrivare al punto di rottura: dj sul palco, ma dj veri, con piatti o cd, e pubblico sotto che, anziché ballare insieme – magari vedi una vicino che ti prende e cerchi di rimorchiarla – è disposto in file orizzontali e rivolto rigorosamente verso di lui. Il dj, poveretto, sì ogni tanto balla, batte le mani, fa qualche gesto di feeling di circostanza, ma il più delle volte lo vedi dare sorsi a un cocktail (e il pubblico ti guarda mentre bevi il cocktail), girare manopoline senza nessun apparente risultato su quello che esce dalle casse (e il pubblico ti osserva e balla mentre giri le manopoline), o guarda con la testa bassa i dischi che ruotano nei piatti, un po’ imbarazzato dall’aver di fronte centinaia di persone che lo guardano anche mentre osserva il moto perpetuo dei dischi sui piatti. Eppure, su questa tv, il pubblico sembra divertirsi un sacco: le ragazze sovente vestono solo il top del costume da bagno, i ragazzi si muovono a tempo con il bicchiere di plastica, e tutti guardano il palco, felici di aver afferrato il senso.