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Da SIDHE. Sulla bellezza.

Creato il 25 agosto 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

sidhe-blu_frontdi Rina Brundu e Giuseppe Leuzzi.

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Ero sicuro di essere nel punto giusto. Sulla cima più alta. Sulla cuspide che avevo vista dal battello del capitano e che adesso mi permetteva di ammirare la costa dell’isola nella sua interezza. Una dorsale di alte scogliere che cadevano a picco sull’oceano, e se ne facevano divorare come fosse un amante mai sazio, un demone infernale condannato a ripetere le stesse azioni ad infinitum. Davanti a me cielo e mare, dietro, i muri possenti e concentrici del forte megalitico la cui roccia più scura, quasi d’ebano, bagnata della pioggia, brillava obliqua sotto i raggi del timido sole. D’improvviso un soffio di vento freddo m’avvolse, spingendomi pericolosamente verso il burrone.

«Se vuole ammirare il precipizio, è meglio che si stenda a terra, altrimenti finirà col ruzzolarvi dentro!», mi raccomandò una voce profonda e divertita che proveniva dalla mia sinistra.

Mi voltai e fu quella la prima volta che vidi Plinio. Se ne stava seduto a pochi metri da me nel punto in cui il limite del burrone incontrava un altro spuntone di roccia più alto che girava ad angolo creando una sorta di riparo naturale. I piedi penzoloni sull’abisso, protetto dalla spalliera granitica contro la quale aveva posto il cavalletto con la tela. Mi fissava forse da qualche tempo, una figura gigante. Gli occhi azzurri profondi tagliavano la distanza, splendendo come fari sulle guance arrossate, per buona parte coperte da una lunga peluria bianca. Un’appendice irsuta che dal mento gli scivolava fino alla vita, avvolgendo la camicia a quadri rossi da contadino, fin sulla macchia verdastra dei pantaloni di fustagno. Anche i capelli erano bianchi, canuti come cenere dimenticata. Li teneva sciolti sulle spalle, hippy impenitente o vecchio saggio. Mi avvicinai.

«Lei dev’essere Plinio. Pierre», mi presentai.

«Il dotto Pierre», rimarcò il pittore, «l’ospite arrivato ieri sera col battello del capitano Bob». Non depose il pennello che teneva nella destra, salutò col capo e un mezzo sorriso. Nell’altra mano la tavolozza di colori amalgamati creava uno straordinario dipinto moderno.

«Il quadro è là», mi provocò notando il mio sguardo fisso sulla cacofonia di tinte e indicando la tela sul cavalletto.

«È splendido!» balbettai ammirando lo squarcio di scogliera eternato dalle sue mani abili in qualcosa da cui sgorgava vita. Mi ricordai delle parole di Margherita a proposito dell’arte dell’ospite fisso e capii quanto appropriata fosse la descrizione del tocco del maestro.

«Lei mi pare uno che se ne intende, dottor Pierre», commentò placido l’artista, mentre mi accomodavo sulla terra nuda, alla maniera degli indiani americani, in posizione rientrata rispetto alla sua e al bordo del burrone. «Mi dica allora: è migliore questo o quella?», domandò additando prima il quadro che andava terminando e poi la scogliera che gli fungeva da modello. «Ma non mi dica che sono belli entrambi», si raccomandò.

«Non saprei, Plinio», risposi. Ed era la verità. Che cos’è bello? La bellezza anzitutto è del mondo, nessuno la proclama. E per i romantici, ma già in Omero, e fra i trovatori, è segno di verità: dalla verità emerge la bellezza, dalla fisica della natura e delle azioni, che vanno penetrate. È ciò che non siamo e vorremmo essere. Non un’assenza, è un desiderio, di qualcosa di più. Un teologo direbbe che la bellezza è Dio. Che senza la bellezza, senza Dio, non c’è umanità. Non c’è poesia, né musica o arte. Né l’ispirazione, o il fluire della materia, in immagini, suoni, significati, in regolarità e eccezioni. Ma non bisogna illudersi. È una tela, che si fa e si disfa, per coincidenze più che per volontà espressa. L’artista che la ricerca con costanza può uscirne disperato. Come il filosofo che cerca la verità. «Sono due cose diverse», aggiunsi per non sembrare scortese.

«Ma è probabile che una abbia minor valore», insisté.

«Dipende».

«Da cosa, dottor Pierre?».

«Da ciò che si cerca. E dal momento».

«Si spieghi», disse facendosi attento. Scrutava ora con cura, valutava. Intuivo che l’opinione che si sarebbe fatto avrebbe determinato la natura del nostro rapporto futuro.

«In questo momento, le confesso, l’altissima scogliera che cade a picco sul mare la preferisco. Guardi come lotta e guardi come soffre», chiosai, indicando le profonde incisioni ai piedi della colossale parete calcarea, dove l’acqua attaccava la roccia con maggior vigore, lavorando con lena mai esausta, fino a quando, sfiancata, sfibrata, la pietra non sarebbe venuta giù, con un tonfo tanto solenne quanto perduto.

«Perciò sta dicendo che la mia arte è inutile, dottor Pierre?».

«Affatto! Lei ha reso al meglio la natura diabolica dell’acqua dentro questo sfondo. E la scogliera, Plinio, la sua scogliera pare… pare una vergine recalcitrante che si dà».

«Alla meglio quindi consegnerò ai posteri una metafora!».

«Una visione sublime», lo rincuorai. «E la memoria, la memoria che si perde farà il resto!».

«Di quale memoria che si perde va parlando, dottor Pierre?».

«Della mia e di quella di chiunque altro avrà avuto occasione di ammirare il modello originale. Prima che s’inabissi. Insomma più debole si farà la memoria collettiva più valore acquisterà il quadro. E più vera diventerà la sua visione».

Plinio scosse le spalle mesto: «Immagino che non si possa fare di più!».

Solo il diavolo sa perché mi venne in mente la faccenda del filo teso scomparso dall’altro quadro proprio allora: «Sempre che il pittore non si ingegni a forzare l’effetto vivo sulla tela in maniere più, come dire, sconvenienti».

«Non la seguo, dottor Pierre».

Guardando dentro lo sguardo chiaro seppi che l’uomo non mi seguiva davvero e lasciai cadere l’argomento: «Nulla, Plinio, mi scusi».

«Però c’è qualcosa che la turba, non è così?», mi chiese di nuovo pratico, mentre riprendeva a lavorare.

«In effetti», ammisi speranzoso prima di riprendere la storia della nerovestita che avevo sorpreso il giorno prima intenta a spingere un uomo giù dalla scogliera.

«Stavano proprio qui: in questo punto», indicai alzandomi e facendo quattro passi in avanti verso la zona da dove avevo sentito la sua voce per la prima volta.

«Ma non ci sono vecchie…».

«Non ci sono vecchie sull’isola, e neppure giovani!», ribattei scuotendo la testa. «Lo so, Plinio, me l’hanno già fatto notare sia il capitano che Margherita, sebbene con modalità differenti. Io però sono sicuro di ciò che ho visto!»

Con mia grande sorpresa Plinio non irrise all’“incidente”. «Secondo il capitano avrei visto due ciocchi di legno trasportati dentro il forte da un vento bisbetico e abbandonati al loro inevitabile destino», mi difesi..

«Illustrazione davvero impertinente, quella del vecchio Bob!», se ne uscì lui. Tornai svelto a sedere al mio posto.

«Lei crede, Plinio?».

«Si guardi intorno, dottor Pierre? Quanti alberi vede in questo deserto di roccia? E che mi dice dei muri del forte e dell’entrata?».

«Troppo alti gli uni, troppo stretta l’altra», mormorai. «Vedo che c’è anche un cancello in ferro battuto che la blocca».

«E questo non le dice niente, dottor Pierre?».

«Ma allora, cos’ho visto? Ho forse avuto una allucinazione?» Lo domandai quasi a me stesso, sempre più scoraggiato.

«Non si abbatta: magari ha solo adocchiato una banshee, dottor Pierre. Non sarebbe il primo. Io stesso ne ho visto una tanto tempo fa».

«Una banshee?».

«Uno spirito dei luoghi».

«Non ho intravisto un folletto verde, se è questo che intende», replicai indispettito e di malumore.

«Non ho detto che lo fosse, dottor Pierre. La banshee è uno spirito femmina. Di norma indossa abiti vivaci e lunghi veli».

«Per essere lungo l’abito era lungo ma la donna in questione era vestita di nero…».

Plinio brontolò qualcosa di inintelligibile.

«È una cosa brutta?» lo pressai.

«Dottor Pierre, che malattie cura?» mutò brusco il discorso.

«Non sono quel genere di dottore, sono un fisico teorico. Ma se non le dispiace, Plinio…».

«Un fisico teorico? Uno di quegli scienziati dalle teorie bislacche, che vogliono fondate sui nostri soldi?» gracchiò fermandosi a guardarmi con interesse.

«Non sono teorie bislacche, non come sembrano».

«Può darsi».

«Per un uomo che mi ha appena proposto l’opzione folletto verde come spiegazione alla possibile scena omicidiaria a cui ho assistito, tanto scetticismo suona eccentrico», mi lamentai.

«Dottor Pierre, le ho già detto che la banshee non è un folletto. Comunque, da cultore della multidimensionalità non dovrebbe faticare ad accomodarla nel suo universo, o in uno degli infiniti altri!». Plinio fece seguire una sonora risata al commento beffardo ed io notai, allora, che pareva la copia del capitano Bob, sebbene vi fosse in questo artista avanti negli anni una calma e una consolazione di cui l’altro mancava. Una felicità nel cuore che, realizzai, già gli invidiavo.

«Non ho difficoltà ad accomodare una qualsiasi teoria», ribattei, «sempre se dietro vi è una formula matematica valida».

«In ogni caso», riprese il pittore, «è vero che sarebbe stato meglio non vederlo, lo spirito, intendo. La banshee è una bella donna, ma non una delle più tenere».

«Bella? Non lo sono forse tutte? La tenerezza invece mi è sempre parsa dote distribuita con parsimonia».

«Voglio dire che è considerata uno spirito del male. Si dice che appaia solamente ai morituri».

«Le credo: gliel’ho detto che la vecchia quel disgraziato lo ha spinto giù dalla scogliera».

«Ma io parlavo di lei, dottor Pierre».

«Di me?».

«Certo, l’ha vista lei, no?».

«Sciocche superstizioni!» protestai stizzito….

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