di Rina Brundu. Il primo film, Wall Street (1987) è valso a Michael Douglas l’Oscar come Miglior Attore Protagonista nel 1988. Il secondo, Wall Street – Money Never Sleeps (2010) è servito ad Oliver Stone per immortalare il personaggio dello spregiudicato finanziere Gordon Gekko magistralmente interpretato da Douglas, rinverdirne il mito nell’aftermath del crash finanziario Lehman e dunque per consacrarlo ideale “padre nobile” di quella finanza-malata che ci ha portato direttamente tra le fauci della crisi finanziaria più nefasta di sempre.
Il punto di partenza fictional è il 1985. Siamo nel mezzo della vita presidenziale di Ronald Reagan, 40º presidente degli Stati Uniti d’America e padre ideale (pure lui!) del modello edonistico e yuppistico che nell’ultimo quarto di secolo ha cambiato il destino del mondo. Nel bene e nel male. Tuttavia, a leggere attentamente il favoloso script di Stanley Weiser e Oliver Stone – script che catapulta in automatico Wall Street tra le pellicole che bisogna-vedere – il vero padre nobile “responsabile” dello sconquasso che ci circonda sarebbe nientepocodimenoche Sun Tzu (544 a.C. – 496 a. C), ovvero il mitico generale e filosofo cinese, autore dell’intramontabile manuale di strategia militare L’arte della guerra. Meglio ancora, il “vero responsabile” sarebbe una interpretazione alquanto libera della filosofia di questo grandissimo pensatore, come a dire che quando c’è da trovare un capro espiatorio per i nostri shortcomings umani non bisogna mai andarci troppo per il sottile né preoccuparsi degli oggettivi limiti culturali, di contesto, di tempo e di spazio.
E a non andarci mai troppo per il sottile è proprio l’antieroe stoniano Gordon Gekko, il quale, partendo dall’imprescindibile motto suntzuiano “Every battle is won before it is fought” (Ogni battaglia è vinta prima di essere combattuta), procede come un carroarmato a farsi strada nel mondo della Grande Finanza Internazionale, trascinando SECo tutto e tutti fino alla fatale rovina. Il credo fondamentale di Gekko recita infatti che “Greed is good” (l’ingordigia e cosa buona). La brama è cosa buona in tutte le sue forme: la brama di denaro, la brama di potere, la brama di conoscere, la brama di esistere. Non a caso è proprio nella creazione di questi singolari mix etici – laddove il male si confonde col bene, il buono si confonde con il cattivo, le catene si allentano e tutto diventa possibile, finanche attraente, affascinante – che il genio gekkiano si manifesta al meglio delle sue possibilità e diventa il vero deus-ex-machina dell’azione scenica filmata da Stone. Di una “action” che sa riflettere a meraviglia importanti momenti delle vite reali di tantissimi individui per i quali, negli ultimi 30 anni, la filosofia di Sun Tzu, rivista e corretta con un tocco diabolico di portata shakesperiana, ha saputo diventare la guida ispiratrice delle proprie “azioni” in ogni santuario finanziario globale che-conta.
Il Wall Street del 1987 si risolve quindi in uno straordinario affresco di un importante periodo della nostra storia recente dove una sorta di capitalismo-arrivato e quasi stanco di vivere di rendita decide infine di lasciarsi andare e di osare un poco di più. Consequentia rerum è il decadere di numerosi miti “arcaici”: da quello dell’amore, definito “the oldest myth running” da uno sprezzante Gordon Gekko, a quello dell’amicizia (“if you need a friend get a dog” ammonisce ancora il maestro Gekko al suo pupillo Bud Fox, brillantemente interpretato da Charlie Sheen); il tutto per far buon posto a tavola al mito del “greed” di cui si è già detto, della ricchezza facile che deriva non dalla fortuna o dalla capacità di creare ma dall’abilità nello sfruttare il momento giusto. Di sfruttare i punti deboli altrui, finanche dalla perserveranza nel perseguire l’obiettivo senza mai fare un passo indietro, costi quel che costi.
Che - dulcis-in-fundo - deriva dalla capacità di tenere nel dovuto conto il rischio che si corre, perché se è vero che “you cannot get a little bit pregnant” è pure vero che non bisogna essere così naive “to believe that we live in a democracy”! L’unica legge che conta è la legge del mercato e al suo codice d’onore occorre obbedire. Non importa se per farlo si arriva a svilire la miglior filosofia di Sun Tzu per sostituirla con un pseudo-amor-di-conoscenza nutrito dai profondi pensieri di “Winnie the Pooh and the money pot”, sebbene reso più nobile dall’assistenza didattica del peggior-Pinocchio. E non importa il dolore che si infligge agli affetti più cari, non importa il nostro stesso benessere morale ma anche fisico (lunch is for wimps), non importa la legalità, non importa nulla, il mondo soccombe davanti al miraggio di una ricchezza terrena che si nutre di “informazione”, che segrega per necessità (either you are in or you are out!), che non crea ma divora il creato, che identifica la sua moralità, nonché la sua virilità nel concetto di “payback” e che si ferma ad interrogarsi solamente in presenza della domanda delle domande: “How much is enough?”.
Sebbene privato della sostanza di fondo che percorre tutto il primo Wall Street, anche il Wall Street- Money never sleeps sceneggiato da Allan Loeb e Stephen Schiff ha i suoi meriti, laddove il suo titolo di sequel della prima brillante produzione non è tanto meritato dal suo raccontare la “seconda vita” dell’ormai pregiudicato Gordon Gekko, il suo ritorno in libertà proprio mentre incombeva il fenomenale boom finanziario-digitale che ha segnato la prima decade del nuovo millennio, quanto piuttosto dalla sua capacità di evidenziare la sconcertante “maturazione” del pensiero yuppistico ed edonistico nato nell’era precedente. Negli anni dominati dalla presidenza di George Bush, infatti, in America e nel resto del mondo americanizzato per vizio e per destino, il “greed” che prima era “good” diventa anche “legal”, come ci terrà a sottolinerare sornione lo stesso Gekko mentre intento a presentare la sua ultima-fatica-editoriale davanti ad una platea di studenti universitari ammirati. Sì, ammirati perché, a dispetto del suo nuovo ruolo di ex galeotto finanziario e di uomo di una data età che tenta di guadagnarsi il pane diventando scrittore-per-non-morire, il mito di Gekko the Great è rimasto intatto e integro nel tempo, quasi a ribadire che le lusinghe del diavolo non hanno età e prima o poi tornano sempre di moda. Alcune volte better then ever, più tentanti ed affascinanti che mai.
Ne deriva che se Bud Fox, 2o anni prima, era solo convinto di stare vivendo “the biggest bull market of our generation”, Jakob Moore (Shia LaBeouf) – il nuovo pupillo, nonché genero, del maestro Gekko – della “pregnanza” del momento economico-finanziario che sta testimoniando ne ha certezza. Wall Street – Money never sleeps è infatti una ricostruzione fictional ma credibile delle molte perverse dinamiche che il 15 settembre 2008 hanno portato la banca d’affari americana Lehman Brothers a richiedere la procedura di fallimento e ad annunciare debiti bancari e obbligazionari per centinaia di miliardi di dollari e dunque la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti. Meglio ancora, ad anticipare gli effetti più funesti della tristemente spettacolare crisi che aveva innescato e che tuttora dirime sulle nostre vite.
In tal senso, pure questo secondo film del dittico stoniano dedicato alla grande-finanza-digitalizzata è ritratto riuscito, specchio-indovinato-dei-tempi. Moderni. Di quei tempi che nonostante gli anni trascorsi da quando il generale Sun Tzu dettava saggezza ai suoi uomini, hanno voluto osare l’inosabile, tentar di imbrogliare il diavolo e i suoi accoliti, prima di ritrovarsi costretti a realizzare che non importa il potere, non importa il denaro guadagnato per capacità, per fortuna o estrema furbizia, il momento del redde-rationem arriva comunque. Per tutti. Detto con Oliver Stone e Stanley Weiser: “We’re all just one trade away from humility”. Ma, a pensarci bene, e a maggior dispetto del Gordon Gekko più rampante, la cosa non è l’inizio della fine, piuttosto… il contrario.
Featured image, ritratto di Sun Tzu.