di Marta Baggiani
Terrafutura è un evento al quale anche chi è solamente incuriosito dalla parola “sostenibilità” dovrebbe partecipare. È una di quelle fiere in cui si può venire a contatto con tutte le piccole realtà italiane che hanno intrapreso questo percorso, a tutela non solo dell’ambiente ma anche dell’uomo, dei suoi diritti e della sua vita in società: piccole imprese, artigiani, associazioni, agricoltori, media.
Fra i tanti convegni e le numerose panel discussions (quest’anno è stata posta attenzione particolare al tema della lotta alla criminalità organizzata, oltre che al tema della crisi, non tanto economica, quanto più culturale e sociale) ci ha molto incuriosito un incontro dal nome “Conversazione sulla Green Economy e i nuovi linguaggi: dalla comunicazione ambientale di marchio al cyber-dadaismo”. La discussione si è tenuta in una piccola sala chiamata per l’occasione Words World Web, in cui nei tre giorni della fiera si sono svolti incontri sul tema della comunicazione, del web e delle nuove tecnologie. La relazione è stata tenuta da Giovanni Scrofani, curatore del progetto Gilda 35, un eversivo “non-blog” (come lo definisce lo stesso creatore) che va proprio a fare satira sui nuovi fenomeni del web. In realtà (ci si perdoni) di green economy si è parlato poco durante l’incontro, così come di comunicazione ambientale, tuttavia si possono trarre degli spunti molto interessanti dall’intervento di Scrofani.
Innazitutto, cos’è il cyber-dadaismo? Posto che si sappia, più o meno, che cosa è stato il dadaismo e che la mission principale di questa audace corrente artistica era quella di fare la guerra all’arte con l’arte, sbriciolando i significati delle opere e dei motivi artistici per riassemblarli in maniera non convenzionale, vediamo cosa comporta aggiungere il prefisso cyber. Il termine nasce intorno alla metà degli anni ’90, quando si iniziano ad annusare le mille potenzialità di internet, ma non si sa ancora bene come sfruttarle. Ci si chiede come fare cultura con Internet, ma anche come fare contro-cultura, come attaccare il sistema, come scuotere le coscienze.
Nascono così le prime comunità online, i cui membri, nello spaesamento unito all’entusiasmo, spesso si nascondono dietro l’anonimato, dando via a quei fenomeni, oggi quasi fuori controllo, che prendono i vari nomi di fake, trolling, meme, mash up, hacker e via dicendo. Ed è proprio questo il cyber-dadaismo: prendere immagini, messaggi, facce e modificarli, ridicolizzarli, beffarli attribuendo loro un nuovo significato, fuori dal contesto di origine che poi si routinizza nel web e diventa riconoscibile agli utenti proprio con il nuovo senso. È un lavoro congiunto di de-semantizzazione e ri-semantizzazione. Ognuno di noi ha sicuramente incontrato “un’opera d’arte” di questa corrente, navigando su internet. Di fatto ormai è impossibile non incontrarle. Gli hacker si potrebbero definire i Duchamp di oggi e i fenomeni mediatici, oltre che i semplici utenti, diventano le vittime delle loro cyber-beffe.
Ma veniamo al caso, che fa nascere una riflessione di altro tipo: questi cyber-dadaisti, hacker o rivoluzionari del web, comunque si vogliano chiamare, non si occupano solo di fuffe digitali e link per ragazzini su Facebook. In molti casi li abbiamo visti agire mettendo in imbarazzo il potere o creando casi mondiali fino ad allora misteriosamente sconosciuti alla massa. Ecco che si potrebbe fare un accostamento fra il ruolo di questi artisti della rete e i nuovi linguaggi che intersecano in qualche modo anche la tematica ambientale, passando per il ruolo dei social media e del web.
Il caso in questione è quello della campagna “Let’s Go”, apparentemente lanciata da Shell per “giustificare” le trivellazioni nell’Artico. Ne avrete sentito parlare, è stato il più grande autogol nella storia di una multinazionale così importante (e non molto eco-friendly), salvo che, in realtà, non proprio di autogol si trattava. In breve, la storia è questa: siamo nel 2010, Shell ha intenzione di ampliare le trivellazioni nella zona del Polo Nord, incontrando, come ormai da molti anni, le resistenze e le campagne di Greenpeace. Queste ultime non sembrano però sollevare troppo clamore. Il colosso petrolifero, insomma, sembra avviato alla vittoria del ‘contenzioso’. Poi nel 2012 appare un sito, Arctic Ready, una campagna di Shell per spiegare i vantaggi delle trivellazioni accompagnata da quello che sembra essere un pubblico suicidio: un concorso aperto a tutti in cui unire uno slogan a delle foto che rappresentavano i paesaggi dell’Artico. Ovviamente, le conseguenze sono prevedibili: attivisti e non si scagliano contro il mostro, pubblicando foto con slogan fra il sarcastico e il denigratorio, tutto online, visibili all’intero pianeta.
Ma ecco svelato il mistero: dietro al sito non c’è la Shell, bensì gli hacker di Greenpeace, spostatisi dalla battaglia sulle navi reali a quella con le armi del web, che realizzano una delle cyber-beffe più riuscite nella storia: la diffusione è virale, le reazioni enormi, la campagna vittoriosa. Shell blocca le trivellazioni, senza nemmeno la possibilità di ribattere, visto l’ignominia mediatica in cui sprofonda.
La realtà è che la Shell non è stata la prima multinazionale ad essere trollata. Il web rappresenta per questi soggetti un pericolo vivo e costante e, forse per primi, gli attivisti di Greenpeace lo hanno capito e sfruttato.
Diventare lo zimbello del web è fin troppo facile, e oggi lo è ancora di più se non si bada alle insidie degli hacker e dei cyber-dadaisti, capaci di sconvolgere con pochi click un’immagine costruita da anni. In più se il messaggio fake che si crea ha uno scopo non più solo di puro intrattenimento, ma anche etico, come nel caso di Greenpeace, si rischia davvero di perdere la faccia.
Possono ad esempio i social media, nei quali sono particolarmente diffusi questi nuovi metalinguaggi, essere volano di una nuova comunicazione ambientale d’azione, ossia diventare i mezzi attraverso i quali combattere contro chi, ancora oggi, non rispetta gli equilibri del pianeta?
Laddove non arrivano i messaggi di sensibilizzazione tradizionali, da anni magari diffusi su internet e sui social, pare che possano arrivare questi nuovi codici. Lo scherzo, la beffa, la presa in giro talvolta ai limiti della decenza, la scomposizione di alcuni messaggi per crearne altri opposti, un cubismo informatico, se si vuole restare dentro la metafora artistica, sembrano davvero essere le nuove frontiere della comunicazione.
Lo dimostrano il caso della Shell, così come quello di McDonald’s che attiva un hashtag su Twitter per dar voce alle esperienze dei clienti. Anche qui flop totale: dare voce al popolo digitale, ad un popolo sempre più attento e sensibile, che non cerca altro che un mezzo per farsi sentire senza censure, è un passo rischioso per quelle organizzazioni che di sostenibilità e rispetto per l’ambiente pare non vogliano sentire parlare, e spesso non basta nemmeno questo.
I cyber-nauti vedono nel web uno spazio di critica potenzialmente infinito, spesso usano le loro abilità di trolling in modo spropositato, figuriamoci quando hanno una valida ragione. I social diventano quindi un’arma a doppio taglio che le multinazionali faticano a gestire: non riescono a fronteggiare gli attacchi che arrivano da questi canali e per di più non possono contrattaccare con la stessa arma, quella dei fake, dei meme o dei troll, per il ruolo che ricoprono.
Assodato che la comunicazione unidirezionale non funziona più, le aziende non solo devono cimentarsi nella gestione dei social media (per la quale stanno nascendo vere e proprie figure professionali), ma pare che non possano nemmeno ricorrere ad espedienti di green washing e affini, poiché abilissimi smanettoni in versione giustizieri sono pronti a svelare ogni segreto e a trasformalo in pubblica umiliazione. Anche Giovanni Scrofani dedica un approfondimento sulla comunicazione tossica di internet, sul blog di Gilda 35, cercando di pensare ad internet come ad un ecosistema parallelo, da tutelare dall’inquinamento comunicativo.
Non resta che sperare, per le organizzazioni, in un’ottima strategia di crisis management, che permetta loro di organizzare la difesa prima dell’attacco ed essere capaci di gestire le continue strategie di sabotaggio e denigrazione. La crisi, che potrebbe essere appunto anche quella in cui si è imbattuta la Shell con Arctic Ready, si gestisce prima di tutto attraverso internet e nelle relazioni coi media: una volta che la reputazione finisce sul web non si può più modificare, rimane alla portata di tutti, e con tutti si intende potenzialmente, il mondo. Naturalmente, non si dovrebbe investire troppo sulla gestione della crisi, se non si teme niente e la reputazione è pulita o realmente green, tuttavia essa potrebbe servire anche contro possibili attacchi nemici, da parte della concorrenza, anche totalmente sleale. Si apre una situazione praticamente infinita dove nella liquidità della società, ciò che si dissolve e si scioglie per prima (nel mare acido del web) è la fiducia. Insomma, internet e i social in generale diventano una vetrina in cui non si può nascondere dolosamente la propria inopportunità e inadeguatezza, pena l’attacco dei cyber-attivisti e la trasformazione in una moderna versione dell’orinatoio di Duchamp, in un teatro di identità corrotte e smarrite, in carne da macello.