Datemi un’unica strada
che sia una striscia di luce
in mezzo al buio,
datemi una meta
una qualunque.

I versi di Gabbiani ipotetici esibiscono un quadro personale che non rassicura o protegge, abbellisce o addolcisce la visione del mondo. Francesca Del Moro non interpreta un mondo ma sceglie una chiusa gamma di esperienze del proprio mondo, in cui la realtà si distingue e comunica attraverso parole che continuano a ripetersi nelle poesie, perché si chiede attenzione, si vuole concentrare il lettore su quell’ordine di pensieri e quell’ordine di giudizio morale. Sulla pesa, va da subito che la sua scrittura non è inerte anzi, va all’attacco, descrive il moto delle esperienze; i versi si muovono liberi, al di là della misurazione del canone o della sperimentazione, perché seguono l’obbligo del vero, senza lacci o pastoie; i versi scelgono la ripetizione polisindeta per rafforzare il giro della lettura. E’ questa la paura che ci spinge tra le braccia\che ci fanno male\che ci fa sopportare. Congiunzioni semplici e pronomi personali seguono il discorso poetico e cercano di asciugarlo, così da far emergere la voce dell’autrice sopra il caos dell’esterno.
E’ “la manutenzione infinita\ i mille piccoli e grandi interventi\che consentono alla macchina di funzionare ancora\” laddove la macchina che non può smettere di funzionare è la memoria del proprio vissuto, quel “sono rimasto com’ero” di cui scrive Derek Walcott.
Nella stesura del lavoro poetico, si possono racchiudere quasi con esattezza le traduzioni in versi delle proprie urgenze comunicative che l’autrice esamina, prende e riprende, rielabora dandone nuovi titoli entro la propria costanza espressiva, e che alla fine della lettura delle sessanta poesie si saldano al vissuto dell’autrice.
Temi esistenziali: continuo il dialogo con un Dio che appare disinteressato alla crudeltà degli uomini, e qui i Gabbiani aprono visioni della presenza del male più che del bene. Temi culturali: continuo il ricordare e citare le proprie fonti letterarie che nutrono l’artista, ci sono strofe che elencano gli artisti amati. Ma su tutto, il pulsare dell’intensità del vivere : rosso – sangue – sangue -rossi, sono continui i riferimenti alla vita come dolore in queste parole distribuite nei versi a mano piena.
Altre catene. C’è il dialogo impossibile da svolgersi con l’amico Massimiliano Chiamenti, morto suicida, che la poeta continua a raccontare e ri-raccontare, come incapace di accettare il silenzio di un monologo imposto. Ci sono pezzi di cronaca, il G8 di Genova o la rivisitazione storica (ninna nanna di Hiroshima, Kim Phue); c’è la solitudine nei bicchieri alcolici degli uomini soli al bar, c’è un tipo d’amore sottomesso che fa urlare, come i neonati incapaci di chiedere aiuto se non attraverso il pianto (sei tu,\ sei sempre tu che mi fai ammalare,\ la casa e vuota e io non faccio niente,\ mentre tutti adempiono agli obblighi di Natale\io mi riempio di te inutilmente).
E nascoste fra i versi, ci sono anche le grida di chi ha visto un patto familiare sfaldarsi e rompersi. Forse è stato quello il parto delle grida del libro. La famiglia è inadeguata ai bisogni assoluti della voce narrante, è una convenzione umana, un luogo mancato di felicità, e la si trova accesa sotto luce in diversi componimenti sparsi nel libro. In Gabbiani Ipotetici, la famiglia è l’urlo di Munch che spezza la passeggiata borghese, l’idolo sacro, il tabù intorno al quale costruire un muro di diniego o aprire il totem per scoprire se davvero esiste un’anima all’interno di esso.

La famiglia cos’è? - si chiede Del Moro - il desiderio masochistico di una prigione\ di ritrovarsi sempre, di isolarsi. La forma è confessionale più che dialogante. La nostalgia di un non vissuto, dal rifiuto stesso dell’atto materno , dalla poesia Aborto (Il dubbio l’attesa\l’angoscia la paura\la speranza il diniego) tema che ritorna anche in Soanchescriverecazzateermetiche (E’ lui, il feto interrotto\il pensiero germinato\la feroce rinuncia\il duplicato di me stesa), al crollo del post partum (ti secchi al sole\diventi trasparente\e guardi da lontano\ la farfalla che vola). In questo cuore c’è l’ombra del rifiuto, del disamore (questa tristezza di bambina non voluta).
Sono questi i versi di maggior eversione del componimento, quelli che toccano affrontano con la spietatezza della verità quei disagi che le voci femminili nei secoli hanno dovuto nascondere, in nome di un moralismo di prassi che la poeta scardina con abilità. Una forza centrifuga attraversa queste strofe e quando la lettura finisce, non c’è alienazione ma comunanza, seppur legata da un dolore e la funzione sociale della poesia viene così compiuta.
da Gabbiani Ipotetici
PER UN AMICO MANCINO
Eri mancino anche tu,
ci avrei giurato,
e poi ti hanno corretto.
Ero mancina anch’io,
te n’eri accorto vero?
E poi mi hanno corretta.
Che ci vuoi fare, d’istinto
afferravamo la vita
dalla parte sbagliata.
Hanno provato a correrggerci,
ci provavamo anche noi,
poi tu ti sei arreso
o meglio hai detto: basta,
fan culo a quegli stronzi
convinti di sapere
qual è la mano giusta.
E io mi sono arresa,
io non so dire basta,
me ne sto qui a riempire
il buco che hai lasciato
scrivendo queste cose
con la mia mano destra.
***
LOVE LETTER
Massimiliano,
avrò mai il tuo coraggio,
la forza di morire
amando la vita e sapendo
che via di qi non c’è niente altro.
Anche io farò
della mia morte
una dichiarazione d’amore
e il mio corpo abbracciato
dal sangue e dall’acqua
sarà toccato
anche da un suo pensiero
quando gli diranno
che io l’ho amato più di tutte
e che ho saputo portare
il mio amore all’estremo.
***
DIMENTICARE GENOVA
A un certo punto
avevamo paura perfino
dell’aria, del cielo plumbeo,
degli elicotteri-avvoltoi
che ci sorvolavano.
Stavamo stretti
per proteggerci,
coi nostri sogni
in tasca insieme ai sassi
e ai pugni chiusi,
ci infrangevamo
come onde infilzate
da fili di vento.
Chi se lo ricorda, ormai,
per cosa marciavamo,
la giustizia globale,
come potevamo chiedere
tanto se nemmeno
su uno sputo di terra
c’è giustizia.
“Mi hanno schiacciato
la faccia con gli stivali”
racconta lei tra visi amici, dopo,
“sentivo il sangue in bocca,
le costole rotte, ho perso due denti,
ma” dice e le si spezza la voce,
“non faceva mali il corpo, era il cuore,
era il cuore a fare male”.

Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna.
È scrittrice, traduttrice, redattrice, performer e organizzatrice di eventi legati alla poesia. Ha pubblicato le raccolte Fuori Tempo, Non a sua immagine e Quella che resta, edite da Giraldi, Bologna.
Ha pubblicato inoltre una traduzione isometrica de Les Fleurs du Mal di Baudelaire (La Càriti, Firenze).
Insieme a Adriana M. Soldini e Federica Gonnelli fa parte del collettivo artistico Arts Factory. Cura la rubrica “Poemata. Versi Contemporanei” per la rivista ILLUSTRATI (Logos, Modena) e scrive di musica per il magazine Sound & Vision.




