DAGHESTAN: Sempre più vicini alla guerra. Parte II

Creato il 19 ottobre 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 19 ottobre 2012 in Daghestan with 0 Comments
di Giovanni Bensi

In Daghestan non mancano coloro che vedono  l’uccisione di Said Afandi come un tassello della strategia di Putin. Ci sono, in altre parole, coloro che non credono all’attentato dei wahhabiti e attribuiscono la morte di Said Afandi ad una provocazione dell’FSB russa che, attraverso un attentato di questo genere (e forse di altri analoghi), mirerebbe a suscitare una reazione popolare talmente violenta da giustificare un intervento di carattere bellico contro la resistenza armata dei guerriglieri salafiti o wahhabiti, gli estremisti particolarmente attivi nella regione. Così per esempio il presidente del Comitato islamico della Russia (un’organizzazione privata ma molto influente) Gejdar Džemal scrive sulle “Novye Izvestija”: “Negli ultimi tempi i sufi e i salafiti hanno avvicinato le loro posizioni, fra di loro sono stati raggiunti determinati accordi. Se i radicali avessero vouto eliminare Said Afandi lo avrebbero già fatto da un pezzo”. Džemal ritiene plausibili che l’attentato sia stato compiuto dalle (o con l’aiuto delle) “silovye struktury”, le “strutture forti”, vale a dire, in sostanza, i servizi segreti. Questo punto di vista è condiviso anche dal vicepresidente della Direzione Spirituale dei musulmani della Russia Europea, Farid Asadullin. “Non si può escludere la possibilità di una provocazione dei servizi segreti”, ha detto in un’intervista, sempre alle “Novye Izvestija”. Egli ha avanzato anche l’ipotesi della “pista estera”: nell’assassinio di Said Afandi potrebbero essere implicate anche “forze arabe che tentano di strappare il Caucaso dalla Russia per creare un “Emirato Caucasico”.

L’ipotesi favorita del governo daghestano è esattamente contraria a quella di Džemal. Se egli suggerisce che Said Afandi possa essere stato ucciso dai servizi swgreti russi per accusare i salafiti/wahhabiti e avere il pretesto per una guerra, le autorità di Makhačkala fanno osservare che la maggioranza dei seguaci di Said Afandi era costituita da imprenditori e funzionari pubblici e perciò il colpo inferto a lui “deve essere considerato un colpo all’”islam di Stato”, (gosudarstvennyj islam, in tedesco si direbbe Staatstragender Islam) cioè all’islam che intrattiene buoni rapporti col presidente Magomedsalam Magomedov e quindi anche con Vladimir Putin. Said Afandi infatti non è né la prima né l’unica vittima tra i fautori dell’islam confraternale daghestano appoggiato dal governo. Nella regione vi sono stati numerosi episodi, troppo numerosi per essere casuali, di eliminazione violenta di esponenti religiosi “confraternali”. Nell’ottobre dell’anno scorso è stato ucciso un altro sheykh, Siradžuddin Khurikskij (Israfilov) che veniva considerato il secondo ustād della Naqšbandiya dopo Said Afandi. Nel 1998 era stato fatto saltare in aria il mufti Sayidmuhammad-haji Abubakarov, allora presidente della Direzione Spirituale dei musulmani del Daghestan (gli successe Ahmad-haji Abdulaev).

Molti respingono le tesi complottistiche e si pongono la domanda: a chi dava fastidio Said Afandi? È un fatto che all’incirca da un anno e mezzo il Daghestan, a differenza di altre regioni, con il consenso e l’appoggio del governo di Makhačkala, si era vistosamente avviato sulla via del dialogo fra moderati ed estremisti, un tentativo di conciliazione volto ad allontanare i salafiti/wahhabiti dalla violenza. In questo tentativo si distingueva proprio Said Afandi, mentre il mufti ufficiale, Abdulaev, si teneva piuttosto nell’ombra. I salafiti e i confraternali avevano trovato una piattaforma per il dialogo e la morte di Said Afandi è stato un colpo assestato a questo processo e al gruppo che favoriva questo dialogo.

La stessa versione è sostenuta anche da Enver Kisriev, dirigente di un istituto specializzato dell’Accademia russa delle scienze, nonché autore di libri sull’islam nord caucasico. “Non a tutti – dice Kisriev – piaceva l’avvicinamento di queste due correnti finora irreconciliabili”, soprattutto in alcuni ambienti governativi. La causa del dialogo con i salafiti/wahhabiti è stata appoggiata con particolare dedizione da Sajgidpasha Umakhanov, di etnia àvara, come Said Afandi, sindaco di Khasav’jurt (in Daghestan al confine con la Cecenia) e capo della cosiddetta “Autonomia nazional-culturale àvara”. Umakhanov, pochi giorni dopo l’assassinio di Said Afandi, il 31 agosto, rivolse un appello al popolo daghestano in cui invitava tutti a “manifestare il massimo di tolleranza reciproca, ad astenersi da rimproveri offensivi circa le convinzioni religiose, a non raccogliere le provocazioni di alcuni concittadini troppo emotivi, ad imparare a trovare e conservare la concordia nelle diverse questioni della convivenza comune”. E l’esponente àvaro continuava: “In questi giorni amari per noi, invito i leader di tutte le correnti dell’islam al proseguimento del dialogo religioso incominciato con la partecipazione più attiva dello sheykh Said Afandi Čerkejskij. Questa è l’unica via capace di salvare il nostro amato Daghestan che si trova proprio sull’orlo di un precipizio senza fondo”, cioè, è facile capirlo, proprio sull’orlo di una guerra, come dicevamo all’inizio.

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Tags: accordi intereligiosi, complotto, conflitto religioso, correnti religiose, Giovanni Bensi, salafiti, sufismo, tensioni in Caucaso, terrorismo, tolleranza Categories: Daghestan


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