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L'odore dell'escalation al mattino

Creato il 23 giugno 2015 da Danemblog @danemblog
(Uscito sul Giornale dell'Umbria)
Qualche settimana fa la Reuters pubblicava un'inchiesta fatta dai suoi giornalisti in Ucraina. I reporter avevano registrato in quei giorni un intenso movimento di mezzi militari russi, che erano finiti per ammassarsi su un poligono di tiro, trasformato in base negli ultimi mesi, a soli 50 chilometri dal confine ucraino. Gli spostamenti di truppe, blindati e carri armati, sono una delle solite ingerenza russe negli affari di Kiev, che sono in una fase di tregua molto relativa (che prende il nome di accordi di "Minsk II") e la paura è che ci sia una nuova escalation di combattimenti tra governo e separatisti come la scorsa estate.
Anche se la Russia nega, ci sono prove sempre più chiare e schiaccianti sul fatto che Mosca sta avendo un ruolo di appoggio nella ribellione in Ucraina dell'Est (tanto che pare inutile parlarne). L'Atlantic Council, think tank americano, la scorsa settimana ha pubblicato un report firmato da Eliot Higgins (il blogger di “Brown Moses”, famoso a livello globale per le analisi della guerra civile siriana basate sullo studio delle condivisioni sui social network dei combattenti). Nel documento, Higgins e un altro collega, hanno dimostrato dalla georeferenziazione delle pubblicazioni sugli account di alcuni militari russi, la presenza di questi all'interno del suolo ucraino ─ circostanza sempre negata da Mosca, che si appella all'assenza di uno specifico mandato del Cremlino per il “via libera” alla missione militare, e che giustifica questi combattenti russi come “volontari”. Vice News ha fatto pure di più: partendo da un soldato russo regolarmente in servizio con cui aveva avuto contatti, il reporter Simon Ostrovsky ha georeferenziato i selfie del militare (appassionato dell'autoscatto in soggettiva) per poi recarsi di persona nei luoghi delle foto. Risultato: si vedono Ostrovsky e il militare russo fotografati nella stessa posa negli stessi posti; e molti di questi sono all'interno del territorio ucraino ─ uno in particolare, è stato scattato a pochi chilometri da Debaltseve, importante città che lega l'area di Donetsk a quella di Luhansk, in cui a febbraio, pochi giorni dopo la firma degli accordi di Minsk, i ribelli hanno lanciato l'ultima zampata per sottrarla al governo di Kiev.
Al nuovo ammassamento di truppe ai confini ucraini ─ lo scoop Reuters è stato confermato pure dalle osservazioni Nato ─, l'Alleanza Atlantica ha risposto con la decisione americana di spostare carri armati nel Baltico. Si tratta di una decisione unica: è la prima volta che mezzi militari statunitensi vengono piazzati all'interno di repubbliche che una volta facevano parte dell'URSS (cioè Lettonia, Estonia e Lituania). Una provocazione che innervosisce molto Mosca che dice di essersi sentita «in pericolo», e per questo il presidente Vladimir Putin ha fatto sapere di aver deciso di schierare 40 nuovi missili balistici nucleare nelle basi più prossime all'Europa.
D'escalation si diceva, anche se la guerra è lontana ─ e ci mancherebbe altro. Putin si difende, attaccando con altre provocazioni, ma quei carri armati sul Baltico sono vuoti: gli USA non hanno mandati i soldati per guidarli (“obamata” è la straordinaria definizione del Foglio, che raccoglie insieme il mix di apparente potenza e consistente mancanza di strategia che accompagna spesso le decisioni della Casa Bianca sulla politica estera).
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A differenza del parcheggio sul Baltico, quello che sta succedendo in Iraq invece dovrebbe avere un fine operativo, pure se anche qui sempre sui numeri stiamo e non troppo di più, ma comunque lo stesso di escalation si tratta. Il New York Times ha scritto un editoriale con un titolo chiaro sui nuovi piani di Obama contro il Califfato: «Saranno un sollievo, ma non cambieranno la situazione in Iraq tanto presto» ─ è “chiaro” soprattutto perché chi segue i giornali internazionali sa che il NyTimes difficilmente critica la linea della Casa Bianca, e dunque quel titolo vale a dire “è un disastro”.
Per stessa ammissione della Casa Bianca, ancora «non c'è una strategia completa» (parole del Prez), e l'invio di nuovi militari ha solo una funzione «incremental», numeri insomma, e su questo si muove la critica della maggior parte degli osservatori.
I 550 nuovi soldati inviati in Iraq da Washington non faranno gli advisor per le truppe irachene (anche perché, come dice Daniele Raineri sul Foglio «il governo iracheno non manda più reclute ad addestrarsi, le spedisce dritte in guerra»). Il compito di questi nuovi militari sarà riallacciare i rapporti con i clan sunniti locali ─ in realtà questo incarico sarà portato avanti da una percentuale minoritaria dei nuovi soldati, gli altri faranno da logistica nella nuova base a Taqqadum (sì, pure una nuova base!) a un passo da Ramadi, lil capoluogo dell'Anbar caduto da poco in mano al Califfo. Cioè, il piano di Obama adesso è di ripercorrere in piccolo il Sunni Awakening che aveva pensato il generale David Petraus, l'uomo di Bush che guidava le operazioni in Iraq. A quei tempi, i clan sunniti iracheni furono protagonisti dell'insurrezione che passò sotto il nome di "Sawah", il "Risveglio", che soffocò ─ almeno momentaneamente ─ al Qaeda in Iraq (che oggi è diventata lo Stato islamico). Obama ha capito che senza le tribù sunnite non si può battere il Califfo, solo che finora il destino di questi si è incrociato con il settarismo sciita del governo iracheno, con l'abbandono americano, con la vendetta violenta dell'IS, per non parlare di chi è passato a combattere al fianco dell'IS (conseguenza di questo breve elenco).
Incassare il sostegno di questa fetta di popolazione, è la forma di strategia del momento (un revival o wannabe): attività complessa che richiede forte coinvolgimento sul campo. Cioè serve quello che Obama è stato sempre riluttante a fornire, almeno per quel che riguarda le idee ufficiali e mediaticamente trasmesse della sua linea politica. Perché in effetti, a conti fatti, sulla crisi irachena in questo momento ci sono già concentrati più soldati americani di quanti furono raccolti dal contingente alleato come reazione immediata agli attacchi del 9/11. A gennaio del 2002 in Afghanistan c'erano circa 5000 uomini: ora, nonostante Obama abbia vincolato buona parte della sua prima campagna elettorale al disimpegno militare e al ritiro dai fronti aperti, sull'Iraq ne operano quasi settemila. Di questi ─ alla faccia dei 200 Marines che dovevano restare a Baghdad per la sicurezza diplomatica dopo il ritiro del 2011 ─ circa 4000 sono su suolo iracheno, 1500 in Giordania, altri 1500 a Incirlik, base aerea turca.
Però differentemente dall'Afghanistan di oltre dieci anni fa, adesso la Casa Bianca fa la soft ed è molto restia a parlare di operazioni militari.


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