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Dal blog di Raif Badawi, la traduzione del post pubblicato dopo l’attacco al World Trade Center. E un omaggio ideale per ogni settimana in cui riceverà 50 frustate…

Creato il 10 gennaio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
563Nota introduttiva.
 
L’autore del post sottostante è Raif Badawi, il blogger saudita arrestato il 17 giugno 2012 e incarcerato nella prigione Briman, di Jedda. Le accuse erano di aver offeso i precetti islamici e di aver creato un sito per i liberali sauditi. Il 7 maggio 2014, Badawi è stato condannato da un tribunale saudita a 1.000 frustate, 10 anni di carcere e una multa di un milione di riyal ($ 270,000 ).
 
Questa particolare pagina del suo blog – ora chiuso per quanto mi è dato di vedere – è stata scritta nell’aftermath dell’attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001. Il pezzo è stato tradotto in inglese dal Yaq’ub AK (che ringrazio qualora passasse di qui) per il sito del Gatestone Institute (www.gatestoneinstitute.org), dal quale l’ho ripreso per la traduzione in italiano.
 
Non debbo spiegare a nessuno perché scelgo di pubblicare dati post, ma voglio chiarire che ho deciso di fare questa traduzione non per un senso di disobbedienza civile verso una qualsiasi autorità, anche se straniera, o per mandare un messaggio subliminale sull’esistenza di un mondo migliore, eticamente superiore, e possibile, ma semplicemente perché colpita dalla profondità (e ad un tempo dalla semplicità) dello spirito che scrive. Dal suo coraggio. E per rendergli onore.
 
Subito dopo pubblico un suo ritratto artistico (non conosco il nome dell’autore dello stesso, ma a lui/lei sempre va il mio ringraziamento) per 20 volte: una per ogni settimana in cui riceverà 50 frustate. Che il Dio in cui crede, qualunque esso sia, possa dargli la forza di sopportare e si consoli nel sapere che per quanto lunga, non c’é notte che possa impedire ad un sole di tornare a splendere.
 
Rina Brundu, in Dublino, 10/01/2015

di Raif Badawi. In concomitanza con i dolorosi fatti terroristici dell’11 settembre, che hanno ucciso più di tremila persone innocenti, i musulmani di quella città colpita chiedono di costruire un centro islamico che contenga una moschea e un luogo di aggregazione nella stessa zona in cui il World Trade Center è crollato sopra le teste di coloro che hanno perso la vita in quel triste giorno.

Ciò che mi fa più male come cittadino dell’area che ha esportato i terroristi (senza onorarli, naturalmente), è l’audacia dei musulmani di New York che raggiunge i limiti della sfacciataggine, data la mancanza di ogni riguardo nei confronti delle vittime e delle loro famiglie.

E aumenta il mio dolore questa arroganza maschilista (islamista) che sostiene che il sangue innocente, che è stato versato dai barbari, menti brutali guidate dallo slogan ‘Allahu Akbar’, non è nulla se confrontato con l’atto di costruzione di una moschea islamica la cui missione sarà di creare nuovi terroristi e chiede finanche che questa moschea venga costruita nello stesso luogo dell’eccidio. Questo è un affronto palese alla memoria della società americana in particolare e dell’umanità in generale, nessuna delle quali può giustificare in alcun modo un simile episodio di sterminio di massa.

La domanda che mi pongo come essere umano prima ma anche come cittadino dell’area che ha esportato i terroristi è “Cos’é questa superbia verso l’umanità?”. “Cos’é questa discriminazione razziale nei confronti del sangue umano?”. Supponiamo di metterci al posto dei cittadini americani: avremmo accettato che un cristiano o un ebreo ci attaccasse in casa nostra e poi costruisse una chiesa o una sinagoga nello stesso luogo dell’attacco? Ne dubito.

Noi ci rifiutiamo di lasciar costruire chiese in Arabia Saudita, senza che nessuno ci abbia attaccato. Che cosa penseremo se coloro che volessero costruire una chiesa fossero le stesse persone che hanno violato la santità della nostra terra? Non è forse – quello che è successo l’11 settembre – un assalto alla sacralità di una terra e di una patria? Di quale terra e di quale patria? Dell’America.

Ancora, come mai non ci si interroga su come sia possibile che l’America permetta a missionari islamici di stare sul suo territorio, e sul perché nel nostro Regno non sia permesso fare proselitismo? Non possiamo più nascondere la testa come lo struzzo, dicendo che nessuno ci vede o a nessuno gliene importa. Che ci piaccia o no, facendo parte dell’umanità, noi abbiamo gli stessi doveri degli altri e gli stessi diritti.

Come gli altri rispettano la nostra diversità, noi dovremmo rispettare le diversità altrui e ricordare il grande senso umanitario del re saudita Abdullah bin Abdul Aziz, che promosse la nobile e nota iniziativa del “Dialogo interreligioso”. Scegliamo insomma di vivere tutti sotto il tetto della civiltà umana.

Non sorprende infatti che il “dialogo interreligioso” del re sia stato accettato dalla comunità mondiale e che il re sia diventato un modello internazionale. Solo usando la ragione si può tenere il passo con il mondo che cambia giorno dopo giorno.

Ci vuole coraggio per rispettare le opinioni altrui, per rispettare i credo e le scelte degli altri e il loro diritto a professarle. Perciò, si intuisce che si sta venendo meno ai principi di fede e umanitari islamici, quando un gruppo di noi va chiedendo che venga costruita una moschea nella stessa zona che, a voler minimizzare, è diventata un pesante fardello nella memoria degli americani e di tutte le persone oneste nel mondo. Gli Stati Uniti rispettano i credo altrui, le libertà religiose e i diversi luoghi di culto, che siano o non siano abramitici. Ciò dovrebbe spingerci a rispettare e ad apprezzare il dolore delle famiglie delle vittime e a dire con coraggio che una moschea non dovrebbe essere costruita in quella zona. La terra libera d’America è vasta e accogliente, possono costruire la moschea in un altro luogo.

Concludendo, non dovremmo nasconderci il fatto che i musulmani dell’Arabia Saudita non solo non rispettano i credo altrui, ma li accusano anche di essere infedeli fino al punto da considerare infedele chiunque non sia musulmano; e, all’interno della loro narrativa ristretta, considerano i musulmani Non-Hanbaliti degli apostati. Ci si chiede quindi come si possa essere così e ad un tempo si vogliano costruire una civiltà umana e normali relazioni con altri sei miliardi di esseri, quattro mliardi e mezzo dei quali non credono nell’Islam.

English translation, Yaq’ub AK.

Italian translation, Rina Brundu.

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