I suoni della natura furono certamente i primi messaggi che arrivarono all’uomo in epoca preistorica, quando ancora la condizione umana era difficilmente distinguibile da quella animale. Era un primo evolutissimo, quanto sconosciuto, sistema di informazione. Il mondo, l’ambiente circostante, dava notizia di quanto stava accadendo o di quanto, a breve, sarebbe accaduto (come ad esempio il rumore di un tuono, il boato di una esplosione vulcanica …). Una sorta di giornale locale che permetteva spesso agli abitanti di prendere adeguati provvedimenti, uniformandosi a quei protocolli che derivavano dal crescere dell’esperienza oltre che dall’istinto. Quell’esperienza che poi avrebbe fatto da fucina al nascere della conoscenza. Il nostro antenato godeva inoltre anche di notizie che potevano giungergli da lontano, allorquando, una violenta piena del fiume, anticipata magari da un sordo e crescente brontolio, lo informava che sulle lontane montagne era piovuto molto o che le nevi si erano sciolte e, pertanto, in conseguenza, questa improvvisa enormità d’acqua sarebbe presto a lui giunta non necessariamente con fauste conseguenze. Il suono dunque fu il probabilmente il primo strumento di comunicazione complessa, nel senso che l’informazione che se ne riceveva aveva un accadimento che l’aveva prodotta ed un accadimento che ne sarebbe seguito. L’unione di queste fasi aprirono le porte alla conoscenza complessa, alla logica oltre che all’esperienza puramente sensoriale tanto che, pur ancora imitando i segnali che si scambiavano gli animali, l’uomo decise lui stesso di fare comunicazione. Era una comunicazione scarna, per lo più dettata da esigenze e fabbisogni, non quel ciarlare ozioso che secoli dopo si sarebbe potuto permettere: a quei tempi altre erano le priorità e scarsi gli strumenti. Con il passare dei secoli, l’inizio delle migrazioni e la conoscenza di più vasti territori portarono alla necessità di predisporre un qualcosa che permettesse la comunicazione a più lunga distanza, comunicazione atta sia a segnalare anche e solamente la propria presenza (non era difficile soffrire di solitudine allora, sindrome che comunque ritroveremo nel XXI secolo) ma, soprattutto ad informare di accadimenti avvenuti o prossimi ad accadere, come un pericolo ad esempio, oppure l’arrivo di qualcuno o di se stessi, o, ancora, ad esprimere una invocazione lanciata nel vuoto (che, per empatia è un poco come lanciarla nel troppo pieno), sperando che, alla necessità di condividere con il mondo qualcosa, qualcuno magari avrebbe potuto rispondere: iniziava così l’epopea dell’animo umano e delle sue passioni. Appaiono a breve i primi strumenti idonei a comunicare, ricavati con quanto disponibile, ovvero una conchiglia o un corno d’animale, o ancora una corteccia arrotolata; tutti attrezzi che comunque iniziavano a mostrare l’opera dell’ingegno umano, la sua volontà di forgiare gli elementi naturali per migliorare la propria vita. La comunicazione dette così origine ai primi scambi che, seppur nella loro scarna consistenza linguistica ed espressiva, già potevano risultare degni di apprezzamento (leggi condivisione) o di diniego, se non addirittura di boicottaggio (leggi nascita dei troll) con l’unica differenza che spesso i “commenti all’articolo” erano piuttosto diretti ed in caso di mancata approvazione se non addirittura di responsabilità per notizia non vera, il responsabile della diffusione era oggetto di sommaria quanto efficace bastonatura (forse è per questo che l’assemblea dei saggi, ovvero i pronipoti degli antichi SEO, hanno tolto il tasto “dont like”, che, per certo, era molto in uso fino a non molto tempo fa). Una cosa era già certa: possedere l’informazione era potere. Comunicare l’informazione era mostrare il sapere. Più o meno accompagnata dall’uso di strumenti, che divennero poi talmente raffinati da divenire strumenti musicali, l’informazione e più in generale la comunicazione tutta passavano per via orale, dando vita a quella forma cosiddetta del linguaggio che, in virtù del fatto che la memoria spesso portava ad inconcepibili dimenticanze, divenne piano piano anche una forma scritta. La lettura del primo messaggio fu una autentica battaglia. Il latore del messaggio, rigorosamente scolpito su pietra, mostratala al presunto destinatario, dovette sostenere una reazione che, sul momento, parve spropositata in quanto quest'ultimo (forse impaurito dalla pietra, sovente ad altri scopi contundenti destinata?) mise immediatamente mano al bastone così ... senza nemmeno aver degnato la notizia di una sola sbirciatina. Fu per questo inconveniente che la scrittura stentò a decollare ed anzi, fu permessa per lungo tempo soltanto ad esigui gruppi e classi sociali e non, come comunemente si pensa, per questioni di potere. Al popolo tutto arrivavano in ogni caso le informazioni e la comunicazione fioriva comunque indisturbata e se all’interno delle comunità tutto si sapeva di tutti, se non altro per l’innato senso di curiosità che tanto ha servito l’uomo e tanto l’ha fatto soffrire, alle comunità vicine sarebbero presto o tardi giunte, anche se spesso - ahimé - veicolate piuttosto da episodi bellicosi di conquista che non da intenti salottieri. Così per secoli e secoli andò avanti l’universo della comunicazione che invero era nata non tanto con l’intento di condividere quanto quello di convincere, ovvero di con-vincere, cioé di “vincere con la parola”. In realtà dunque il linguaggio fu la prima arma dell’uomo anche se con l’affinarsi e l’arricchirsi del vocabolario, scoprì che lo si poteva utilizzare anche per altri fini, quali la con-vivenza, la poesia, l’amore, addirittura - incredibile ma vero - per la democrazia (che tuttavia ben poco resistette - Pericle docet - tornando a forme di socialità più consone alla sua indole). Le forme di comunicazione da allora per lungo tempo non cambiarono: lingua scritta e orale, nella loro più ampia accezione, volendo in ciò considerare ad esempio anche la pittura, la scultura ed altre manifestazioni grafiche e artistiche come espressioni tutte assimilabili a forme di linguaggio interamente appartenenti a quel complesso embricarsi ancora vivente e pulsante tra linguaggio della parola e linguaggio dei segni. Fu dunque un periodo di “specializzazione”, dove si perfezionarono i metodi conosciuti, facendone anche una selezione di tipo antropologico: la lingua scritta restò ed anzi divenne ancor più appannaggio delle classi dei potenti, dei rappresentanti degli imperi che si stavano formando, cosa che fece ben presto sparire tutte quelle forme regionali a vantaggio di poche ma più diffuse grafie, mentre le lingue parlate ebbero una possibilità in più, in quanto ciascuna classe, popolo compreso, potette godere di una sua specifica forma che anzi, da regione a regione cambiava, perpetuando in parte quella mitica Babele che nei secoli sarebbe divenuto emblema di quel “parlar fra sordi” che avrebbe portato a ciò che siamo. Ma i tempi non lasciavano spazio a sosta alcuna in virtù di una sempre più raffinata brama di possedere fino a che, anche la comunicazione stessa, non finì per l’esserne in parte fagocitata: la scrittura storicamente era da sempre sull’orlo di pericolosi baratri. Se ne serviva anche la scienza tutta è vero ma scarso era ancora il servizio logistico della distribuzione tanto che, almeno in occidente, il servizio del “fatto a mano”, ovvero per via amanuense, risultava più che sufficiente a soddisfare il fabbisogno. Al resto del popolo provvedevano i ciarlatani, i cantastorie ed i mercanti: gli uni per lavoro o per diletto, giornalisti antesignani, gli altri per amor di parlantina, quella che, memore del vecchio dettato di con-vincere, serviva loro per vendere e campare. Non molto successe nella vecchia cara Europa fino a quando non fu tentato di passare ad una forma scritta che, francamente, lasciata nelle sole mani di chi ricopiava, iniziava a non reggere il passo con una moltitudine crescente di popolazioni. Le stesse, non solo con la lingua parlata oramai si trovavano più che a proprio agio, anzi, avevano tramite di essa, imparando lingue e idiomi diversi, dato un forte colpo alla nascita di quella integrazione che lentamente avrebbe costituito le basi del nostro odierno villaggetto globale. Non restò dunque che procedere alla cosiddetta invenzione della stampa (a caratteri mobili di metallo) . All’inizio una tragedia: figurarsi che uno dei primi libri stampati fu proprio la Bibbia, per l’appunto, a detta di molti, nella lingua sbagliata, ovvero in tedesco (ricordate di un certo Lutero e di quanto intorno a lui accadde?), cosa che fece scatenare un vero e proprio putiferio, come se poco più di un secolo prima, una certa peste non avesse già prodotto abbastanza guai. Ma tant’è, oramai la strada era imboccata così che la comunicazione finalmente riuscì ad arricchirsi in forma sempre più diffusa e diffondibile, anche della cultura, di quel mondo cioè, che per secoli e secoli, era rimasto appannaggio di pochi eletti o, comunque, di pochi potenti o fortunati. I secoli successivi, ovvero fino quasi al nostro ultimo vissuto ventesimo secolo, videro solo un fiorire ampio e vasto di forme diverse degli stessi strumenti. In particolare la scrittura compì balzi da gigante, non solo per la diffusione quanto per i contenitori: dal volume si passò a forme più snelle come l’opuscolo, il pamphlet fino a giungere al giornale quotidiano ed infine al manifesto e al volantino, per le comunicazioni spicciole, immediate. Una sorta di tweet d’altri tempi, spesso utilizzati per viaggiare nascosti, pronti, all’occorrenza, ad essere ingoiati onde non finissero, nel più impavido esercizio di rispetto della privacy, sotto gli occhi sbagliati. Ciò che era cambiato era in generale il compito della comunicazione: non era più solo informazione, ma anche scambio di idee, un sorta di salotto itinerante di pensieri, quello che oggi definiremmo un brainstorming rinascimentale, illuminato e illuminante, talvolta addirittura illuminista, che concedeva spazio al superfluo e al necessario, all’utile sociale così come alle forme singolari, epistolari talvolta, con le quali il singolo intendeva rivolgersi al mondo, non solo al fine di risolvere cogenti problemi, ma anche solo per esternare i propri pensieri, per dare forma alle proprie passioni, per condividerle infine e soprattutto. E venne l’onda radio. Con essa la prima grande spinta verso l’accorciamento dei tempi e delle distanze, verso quella omogeneizzazione culturale cui oggi assistiamo, ancora non propriamente a nostro agio, un poco come se rincorressimo dei risultati che accadono ancora prima che si possa aver verificato il precedente. Ma non togliamo la giusta ribalta alla radio e con essa alla televisione che hanno fornito alla comunicazione ed al transito dell’informazione due strumenti che da veicoli conduttori sono talvolta divenuti emanatori, diffusori di realtà che - ahimé - sovente si sono rivelate virtuali, effimere, strumenti dove il vecchio vizietto del con-vincere ha trovato ben altre e più sofisticate (addirittura subliminali secondo molti) forme espressive ed eclatanti risultati. Ma ciò non poteva più contentare la smania del sapere tutto e di essere protagonisti in tutto, come se una follia in odore di ubiquitarietà avesse colto l’umanità o almeno grande sua parte. La scienza ancora una volta ha prodotto il miracolo regalandoci la rete e con essa strumenti e strumenti ancora, tanto che oggi chiunque può divenire libro, giornale, rivista, manifesto, ma anche radio, televisione, cinema. Insomma ha costituito quella sicurezza psicologica per la quale oggi ciascuno, se vuole, se lo desidera, può divenire lui stesso comunicazione assumendo la forma espressiva che preferisce.
Ma come in tutte le cose, tuttavia, le forme espressive transitorie sono quelle che servono ai passaggi generazionali e così tra tutte quelle possibili, la forma del diario elettronico o “blog” come si definisce, dall’inglese “web-log”, ovvero “diario in rete”, sembra per il momento andar per la maggiore. Retaggio del vecchio vizio della penna e calamaio, o della macchina da scrivere, insomma, non ci fa fare quel complicato salto nel buio che implica ogni cambiamento radicale ma ci traghetta, in modo quasi indolore, verso le nuove frontiere della comunicazione. D’un tratto ci troviamo tutti scrittori e non a caso così li chiamo. Blogger verrebbe da dire, e bisognerebbe dire, ma quella è un’altra cosa. Presuppone conoscenze e predisposizioni che non necessariamente si hanno. Una categoria alla quale io, verosimilmente, non appartengo. Mi calza meglio la prima, senza rimpianto alcuno. Vedo, leggo, osservo questo traghetto ch’è il blog senza invero capirne molte espressioni. Tanti sono solo casse di risonanza per notizie come si dice condivise, tanti sono qualcosa che non sono arrivato a capire se non per un innato senso di rispetto verso ogni forma espressiva quantunque li consideri copia della copia della copia, altri ancora sono cataloghi pubblicitari ove scovare un minimo di testo, sia esso notizia, informazione o pensiero è cosa ardua, altri sono semplici autocloni, ovvero uno scrive un pensiero o riporta una notizia, magari di giornale (in ciò oltre tutto facendo pubblicità gratuita ma .. lasciamo perdere), e poi fa copia/incolla su tre o quattro blog diversi, evidentemente nell’intento di “guadagnarci qualcosa”, tanti altri invece, i più mi auguro, sono forme libere di diario e di pensieri, buttati giù senza una organizzazione, come il mio d’altronde. Ultimi e non ultimi ci sono i blog professionali che riconosci perché spesso vi trovi un equilibrio tra l’antico modo di comunicare che è la parola scritta e i nuovi strumenti che l'informatica ti mette a disposizione e infine altri ancora, informaticamente strutturati, coscienti del fatto di essere strumento nuovo,colti nel presentarsi, esuberanti, quasi prepotenti perché difficilmente vengono condivisi, certi dell’essere seguiti, inappuntabili nell’uniformarsi a questo nuovo vestito che, in realtà, è sempre in fase perenne di imbastitura, ora aggiustando una tasca, ora eliminando un risvolto. Quei luoghi informatici dove spesso si pontifica con atteggiamento cattedraticamente felice (perché l’ottimismo è d’obbligo, non tanto per una sana forma di approccio al futuro, quanto perché il sorriso per la nuova intellighenzia è simbolo di acquisita conoscenza per cui il proprio sapere lo si può dispensare in allegria, le catastrofi si possono annunciare come se si andase ad un picnic, freddi nella logica delle proprie distaccate osservazioni), ove si discute e si dibatte sulla bontà degli accessori e sul personale apprezzamento o meno di quello o di quell'altro metodo o strumento, fino ad indicare nei casi più esuberanti, addirittura la tendenza per l'anno prossimo venturo, novelli Valentino del silicio. Come se la comunicazione fosse divenuta un’automobile, il cui modello base è oggi nei cataloghi solo per dovere legislativo e dove gli accessori sono infiniti, nella purtroppo falsa convinzione che tutto ciò possa rendere personale, unico, qualcosa che alla fine, io, lettore, rischio di dover osservare come un quadro in divenire, senza leggere perché ahimé del testo o invero del contenuto (visto che siamo in era di multimedialità), spesso se ne dimentica l’esistenza e molto spesso l’importanza. Ma soprattutto il blog assolve ad una necessità: quella della democrazia e della libertà di espressione e di informazione, anche se ciò spesso viene mal ricompensato, per cui l’esercizio stesso della libertà ci inebria al punto di impedirci talvolta di vedere come la usiamo, per quali fini, con quale intensità, con quale sentimento, passione, riflessione, indagine, curiosità, amore, per quell’irriconoscibile senso della qualità che dovremmo da noi stessi esigere e che spesso invece (…l’algoritmo Panda mi dicevano secoli fa….) deleghiamo all’inesattamente imperfetta semiscienza della statistica. L’idea dunque, l’atto del comunicare, sposta il valore dei propri ingredienti verso una percezione dell’informazione e del pensiero che molto spesso, se riportata ad una pagina bianca, foss’anche quella di word, avrebbe un impatto completamente diverso, vorrei aggiungere (anzi lo faccio) demoralizzante.
E poi l’ammiccare in fondo in fondo, di questo senso di solitudine nella globalità, là dove il vuoto ed il troppo pieno coincidono, dove tutti dicono e sanno tutto e dove tutti non sanno più nulla, dove spesso si ha più bisogno di esser parte di qualcosa che non di comunicare, dove la condivisione è più la speranza di non essere soli che non la forza di partecipare ad altri un’idea. E comunque blog mi hanno spiegato è tutt’altra cosa ma siccome poco o nulla vi ho capito, non mi restava che provare, di persona. E devo dire che in fondo non è male, certo non peggio di tanta carta che una volta inchiostrata non si può riutilizzare, qui almeno il riciclo è consentito. Vi si possono fare in effetti tante cose, …… un poco come il telefonino, dove oggi si riesce anche a telefonare.