“…. comincia il libro chiamato Decameron, cognominato Prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle, in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini”, questo l’incipit del proemio della grande fatica di Boccaccio. Sì grande fatica e soprattutto... grande fortuna la sua. Cento novelle scritte in un periodo molto difficile, quella metà del 1300 durante la quale nel mondo tutto, almeno in quello conosciuto, si era alle prese con la peste nera, una vera e propria pandemia che tra Asia - dove nacque - Europa ed Africa, portò con sé - così dicono le stime e le ricostruzioni - oltre 100 milioni di persone. Che a quei tempi erano tante, molte più di quanto non potrebbero essere considerate oggi dove, alla soglia dei 7 miliardi di abitanti, avrebbero rappresentato un 1,4%, mentre allora, era circa un terzo degli abitanti dell’intero, amato, nostro pianeta, pari al numero degli internauti di oggi.
Ebbene se è vero come molte stime oramai riportano, che il numero degli internauti ha superato i 2 miliardi di unità, essi rappresentano appunto circa il 30% dell’intera popolazione umana. Così, la peste di allora può essere, per assimilazione, considerata il primo virus di un mondo globalizzato, che portò ahimé non a morte elettronica ma fisica. La globalizzazione al tempo era quella che viaggiava non su fibra ottica o su onde elettriche che rimbalzano da satelliti, bensì sulle vie carovaniere, sulle navi mercantili, frutto di quel mondo commerciale che ormai da secoli aveva legato le terre più lontane, attraverso lo scambio di beni e prodotti. I tempi non erano da misurarsi in decimi di secondo senz’altro anche se quando dilagò, la peste, nella sola Europa, nell’arco di soli dieci anni, portò con sé oltre 25 milioni di persone. Soprattutto si sviluppò nelle città dove maggiore era la possibilità del contagio e così a Firenze dove, dice Boccaccio nel Proemio decameroniano: “…Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire sé esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno….”, fu uno degli effetti collaterali - e come tale sempre, o quasi, indesiderato - di un mondo che portava nel suo sempre più intenso scambio non solo di merci, ma anche di cultura e di sapere, anche la diffusione rapida di un morbo che solo poche centinaia di anni prima, si sarebbe esaurito nello spazio di una comunità ed in pochi chilometri quadrati, senza avere nemmeno l’onore di balzare, seppur nefastamente, alle cronache né, tanto meno, di divenire oggetto dell’arte. Ed allora Boccaccio persegue la via dell’isolamento per salvare se stesso ed i suoi protagonisti dai luoghi contagiati, così come grossolanamente si cercava di fare con le navi che provenivano da luoghi lontani istituendo la famosa “quarantena” (che , ahimé, isolava gli uomini, ma non i topi che tranquillamente salendo e scendendo per i cordami sui moli, come una versione malefica di tanti Fievel Toposkovich, diffondenvano il morbo). E così sarà nella storia come nella letteratura. Ogni qualvolta si vorrà preservare, salvaguardare e mantenere qualcosa di importante e di fondamentale si ricorrerà alla fuga, all’isolamento, al nascondiglio. Ed in ciò facendo, sia per fini drammaturgici che per ben più alti intenti umanitari, eleggeremo, più o meno consapevolmente qualcuno o qualcosa al grado di guardiano, di tesoriere, di salvaguardia ultima. E se per Boccaccio il nemico era la peste, per altri, specie per la storia, il nemico è l’uso della comune conoscenza. Se avessimo, ad esempio, conservato il segreto della potenza nucleare e, per contro, avessimo sviluppato le tesi e le applicazioni di Nikola Tesla che, per estensione, visto che era riuscito ad inviare un segnale radio senza fili potremmo considerare il padre del wireless (a Colorado Springs nel 1900 fece accendere una lampadina con un comando radiocomandato, ovvero senza fili) oltre a ben altre scoperte in campo energetico, avremmo forse optato per una scelta più oculata? Ma rimandiamo questo filo di pensieri ad altro appuntamento. I fatti comunque daranno ragione a Boccaccio se non altro riguardo alla peste ed il suo “letterario isolamento” che servirà a salvare i protagonisti ed a consegnarci l’opera, visto che lui stesso ben si guardò dal frequentare la città in quegli anni. L’abbandono della vita condivisa e globalizzata fu scelta oculata dovuta alla paura scatenata dalle centinaia di cadaveri che si accumulavano tanto che forse ebbe a trattarsi di fuga casuale ed irragionevole ancorché istintiva. Nulla, nella conoscenza di allora, in alcuna parte del mondo, poteva conoscere i rimedi né risalire alle cause, tanto che gli ammalati vennero unicamente curati con salassi che avevano per certo un indubbio effetto contrario, ma almeno, per l’indebolimento abbreviavano le sofferenze, visto che ogni altro medicamento non sortiva effetto alcuno dopodichè, con la scomparsa del morbo, volendo necessariamente, almeno in Europa, trovare la testa su cui far ricader la colpa, viste le dimensioni del disastro fu optato, ma solo per una casuale maggioranza dei sopravvissuti e della loro fede, per perseguire streghe ed ebrei, le une per la consueta accusa di combutta con il diavolo, gli altri per aver, a suo tempo, mandato a morte il Cristo e, pertanto, agli occhi cristiani, sempre e comunque colpevoli (anche le poche volte, come questa, in cui non avevano responsabilità alcuna). Quell’iperbole globalizzante che fu lo scatenarsi ed il diffondersi del virus portò, per conseguenza, ad una nuova cautela e ad un nuovo ordinamento sociale in quasi tutto il mondo. I sopravvissuti trovarono spazi e ricchezze che prima gli erano preclusi. I beni erano sovrabbondanti, i prezzi scesero enormemente, mentre servizi, come la mano d’opera ad esempio, divennero merce quasi rara. Parimenti, i potenti di prima, seppur materialmente più ricchi, come ad esempio la Chiesa, per i lasciti e le donazioni (anche estorte e forzate) ricevuti, ne uscirono sminuiti nel loro carisma per non aver saputo né arginare il morbo né trovarne spiegazione convincente, perdendo quel carisma che fino a quel momento ne aveva alimentato il potere e che da allora in poi sarebbe stato sostituito sempre più dalla paura e dalla violenza. Le case regnanti spesso vennero spazzate via e dall’ordine medievale si iniziò quella fase di transizione che avrebbe portato allo sviluppo del rinascimento. La globalizzazione sarebbe risorta con regole diverse, nuove frontiere, sempre ripartendo dalla spinta commerciale per poi riapprodare nuovamente all’universo della conoscenza.
Oggi nella prima fase di questa nuova globalizzazione dovuta non al commercio né alla conoscenza quanto alla velocità ed alla capillarità della comunicazione, i primi risultati forse sono prematuri, anche se pare si debba assistere ad un neo-rinascimento ove, ancora una volta, il rapporto dell’uomo con l’universo sia destinato a modificarsi in maniera radicale. Complice ancora una volta il fallimento dei sistemi economici alimentati e proliferati proprio proprio grazie alla prima era della globalizzazione, quelli in base ai quali al crollo di una economia nazionale, per l’effetto dell’intreccio globale, una dopo l’altra le economie del mondo sono cadute rivelando come la ricchezza reale ed effettiva fosse stata sostituita oramai da una ricchezza nominale, virtuale e quindi, praticamente inesistente, frutto soltanto di un plusvalore filosofico, decretato da chi, in questa era della storia del mondo, detiene il potere, ovvero di chi, essendo questo un sistema basato sulla vendita del debito altrui, ha saputo mantenere i crediti e distribuire il debito su le popolazioni tutte. Forse, come alcuni quasi auspicano, una peste cibernetica sotto forma di virus letale, azzerante le memorie elettroniche, porterebbe con sé la rinascita della vera e reale ricchezza dalla quale ripartire, mentre altri, pervicacemente - ma anche maggiormente - interessati, propendono per un massiccio accanimento terapeutico, atto a riportare le cose a quello stadio che poi sappiamo oggi cosa ha generato. Nel frattempo c’è chi, boccaccescamente diremmo, inizia ad isolarsi, a rifiutare le cure dei dottori che voglion praticar salassi (e mai paragone fu più azzeccato perdinci!), così si staccano le spine in Islanda dove si rifiuta il debito e ci isola dai mercati internazionali, già le si erano in parte staccate in Argentina, si staccano in Ecuador, a fuggire questo nuovo effetto collaterale che non sarà peste, ma ne ha tanto l’odore. L’Islanda dicevamo. Forse in molti hanno già dimenticato la vicenda anche se antica di soli un anno e dieci mesi (del marzo 2010 il referendum popolare che disse NO). Fu la bancarotta del paese, così come oggi lo è in Grecia e quasi in altre nazioni come Italia, Spagna, Portogallo. Il rimedio proposto dai “dottori” (BCE, FMI, i soliti insomma… a seguito dei cui interventi fra l’altro non v’è memoria storica di un salvamento!!!) in Islanda fu quello di cercare di imporre un “salasso spalmato nel tempo” per cui ogni cittadino dell’isola avrebbe pagato circa 100 euro al mese per i prossimi quindici anni!!! La risposta fu un no dal 93% dei votanti al referendum che fu indetto. La scelta era quella, come a suo tempo disse il Presidente islandese Ólafur Ragnar Grímsson - schieratosi al contrario di altri leader dalla parte della popolazione - che la scelta era tra divenire la Cuba del nord, ovvero una terra isolata dai mercati internazionali, o l’Haiti del nord, ovvero la terra del nord impietosamente più povera e schiava di poteri bancari, nei decenni a venire. La risposta si è concretizzata in una nuova costituzione (tra l’altro per la legge del contrappasso, costituzione cresciuta sulle pagine di internet), in quel neo-rinascimento come ci siamo concessi di chiamarlo, per cui un popolo ha ritrovato non solo sovranità nella propria nazione ma, soprattutto, la dignità di affrontare le difficoltà più gravi per ricostituire un futuro reale e credibile e non per riallineare i numeri virtuali di un debito globale che servirebbe soltanto a far ulteriormente arricchire i già ricchi e ad aumentare il debito vero.
Boccaccio già ne aveva ampiamente dissertato: “…E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare…” e gli islandesi ne han fatto tesoro riappropriandosi innanzi tutto della libertà di scelta, della libertà di decidere in quale direzione sia o meno opportuno sacrificarsi, per quale causa pagare del proprio lavoro e della propria fatica. Abito in Grecia ed ho iniziato a vivere questa tragedia sociale molto prima degli amici che mi leggono in Italia e che vedo, oggi, giustamente preoccupati anche se, credetemi, ancora ben lontani da quanto sta vivendo questo paese. Qui a suo tempo non ci fu il coraggio né di uscire dall’euro né di dire di no, ancora non coscienti di quanto sarebbe di lì a poco iniziato ad accadere. Probabilmente questo coraggio diventerà conseguenza della disperazione tra non molto. Questa nazione di 15 milioni di abitanti ha contratto un debito complessivo di 260 miliardi di euro se verranno erogati anche gli ultimi aiuti approvati ad ottobre 2011. Questo vuol dire circa 17.500 euro di debito a testa, compresi vecchi e bambini (che divisi invece per il numero degli aventi lavoro ammontano esattamente al triplo!!), senza contare gli interessi che matureranno con il tempo, secondo la miracolosa ricetta FMI e BCE (entrambe organizzazioni private tra l’altro!!!). Non credo vi sia bisogno di altri commenti. Il mio non vuole essere l’ennesimo parere da aggiungere alle mille, seppur giustificate, critiche e constatazioni che leggo. La mia è una proposta: seguire l’Islanda!