Magazine Racconti
Aprica, 13 agosto 1976
Lidia,
mi manchi.
Ormai la guerra è finita da un po' ma ho ancora tanta, troppa paura. Ho la sensazione che da un momento all'altro qualcosa di inevitabile si porterà via la finta calma di questo paese.
Giù a Teglio la gente sorride; crede che una cosa come quella basti a mitigare gli animi, a spegnere i bollori.
Io no.
Per me una cosa non è veramente finita finchè non è morta, e lei non è morta.
Aprica è aspra, sa di roccia e terra. Quelli che ci vivono sono austeri, rigidi e insidiosi come i sentieri della loro montagna.
Ci ho pensato spesso, in questi giorni, a com'era: affabile, incantevole, misteriosa e piena di aspettative.
Come tutto le cose, all'inizio.
Lidia, vorrei partire, correre da te.
Ma non posso.
Nonostante la paura, il terrore con cui convivo tutto il giorno e gli sguardi sospettosi della gente di qui, non posso ancora andarmene.
Il mistero mi chiama a sè. Lei mi chiama a sè. Quando la vidi per la prima volta ebbi il presentimento che non avrei più potuto farne a meno. E così è stato.
Ad Aprica gira voce che da piccola si sia persa dalle parti dello Stelvio. Quando ne fece ritorno la trovarono così maledettamente bella che non fecero altro che guardarla per giorni interi.
Ma non si seppe mai... cosa la trasformò.
E ora se ne sta lì, come se nulla fosse.
Devo scoprirlo.
Aspettami, Lidia, farò presto ritorno.
Ora devo andare.