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Dal libro al telefilm: House of Cards

Creato il 04 agosto 2014 da La Stamberga Dei Lettori
Dal libro al telefilm: House of CardsOra che è appena terminata la prima stagione, andata in onda sul canale satellitare Sky Atlantic, possiamo tirare le somme su questa super discussa e super pubblicizzata trasposizione dell'omonimo romanzo di Michael Dobbs, di cui vi abbiamo parlato qualche mese fa.
Il bestseller di Dobbs, già consigliere personale di Margaret Thatcher, è in realtà il primo di una trilogia che racconta l'ascesa al potere dello spietato Francis Urquhart, capogruppo del partito conservatore inglese, ed era già stato portato sul piccolo schermo grazie a una miniserie della BBC, inedita in Italia ma di enorme successo in patria.
Già nel 2008 l'acclamato regista David Fincher (Seven, Fight club)aveva visionato la serie inglese e ne era rimasto affascinato, anche perché da diverso tempo contemplava l'idea di un progetto per il piccolo schermo che, secondo Fincher, ha il vantaggio di garantire tempi più lunghi e una migliore possibilità di approfondire la psicologia dei personaggi.
I produttori indipendenti Media Rights Capital tentarono di vendere lo show a diversi network "ufficiali", ma fu l'emergente Netfix , canale di streaming on demand, ad assicurasi il telefilm acquistando in anticipo ben due stagioni e segnando così un grosso colpo nel suo processo di crescita come network alternativo.Dal libro al telefilm: House of CardsRegista e sceneggiatori hanno fatto un lavoro magistrale nel modernizzare il romanzo di Dobbs, che in termini di riferimenti giornalistici, tecnologici e anche di emancipazione sessuale mostra ormai i suoi quasi 25 anni, e nel convertire la politica parlamentare britannica nel sistema governativo statunitense. La serie di Fincher è infatti ambientata a Washington D.C. nel 2013 e prende l'avvio subito dopo l'insediamento del nuovo governo democratico alla Casa Bianca, quando il protagonista, qui ribattezzato Francis "Frank" Underwood, capogruppo di maggioranza scopre che il neo-Presidente non ha alcuna intenzione di mantenere la sua promessa di nominarlo Segretario di Stato. Dietro ad un sorriso di facciata, Underwood nasconde una profonda delusione immediatamente tramutata in ira e desiderio di riscatto che lo porteranno a elaborare un piano di eliminazione dei concorrenti in una posizione di potere.
Al di là della diversa ambientazione, spicca la scelta di cambiare il cognome del protagonista da Urquhart ad Underwood, cognome che alle orecchie del regista risultava più "dickensiano" e americano, pur mantenendo le stesse iniziali. L'Urquhart originale inoltre è di estrazione aristocratica, dettaglio che emerge più volte nel suo modo di relazionarsi con alcuni parvenu della politica, mentre il nuovo Underwood è un uomo del Sud che si è fatto da solo, capace di mascherare dietro alla proverbiale bonomia e cortesia sudista la sua natura spietata e calcolatrice. Magistrale è l'interpretazione che ne dà il Premio Oscar Kevin Spacey (American Beauty, I soliti sospetti), che infonde al suo personaggio un caldo accento del Sud e un'aria sorniona con la quale si rivolge direttamente ai telespettatori offrendo caustici commenti alle azioni dei suoi avversari (alcune delle battute migliori della serie sono contenute qui). L'idea di infrangere la "quarta parete" è stata presa direttamente dalla serie originale inglese, sebbene il tono di Underwood sia più sardonico e meno ammiccante rispetto al vecchio Urquhart lasciando trasparire un atteggiamento vagamente minaccioso che emerge poi più volte nel corso della serie. Dal libro al telefilm: House of CardsAltra importante novità è la figura di Claire Underwood, moglie di Frank, nel romanzo totalmente assente e qui invece personaggio fondamentale in quanto strategica alleata del marito, di cui condivide l'ambizione e la sete di potere, rendendo la coppia un'efficace trasposizione moderna dei Macbeth shakesperiani, a cui i due sono stati più volte paragonati. Il personaggio funziona anche grazie alla splendida Robin Wright (Forrest Gump, Le parole che non ti ho detto) che finora mi aveva sempre dato l'impressione della gattamorta, mentre qui sfodera una grinta inaspettata nel ritrarre con gran classe una donna complessa, fredda seppur non priva di sentimento e forse ancora più pericolosa del marito perché in grado di ammantare la sua sete di potere di un'aurea positiva proponendosi come sostenitrice di associazioni ed eventi benefici.Il suo rapporto con il marito è una delle cose migliori della serie: Wright e Spacey tratteggiano una coppia di freddi arrivisti che, pur intrattenendo una relazione estremamente pragmatica, si dimostrano profondamente innamorati e solidali l'uno con l'altra.

Al di là dell'ambientazione politica, che è comunque complessa e intrigante, la serie è - a mio avviso - soprattutto uno studio dell'ambizione umana, dei diversi modi in cui si manifesta e fino a quali estremi ci può condurre, per cui il paragone con Macbeth è più che calzante così come lo è quello con Riccardo III, il quale tra l'altro aveva anche lui l'abitudine di rivolgersi direttamente agli spettatori, come il buon Frank.

Dal libro al telefilm: House of CardsSotto questo aspetto lo show fa un lavoro molto migliore del libro, che ho invece trovato un po' più grezzo e incentrato quasi esclusivamente sui meccanismi della politica che comunque emerge, in entrambi in casi, come un lavoro sporco. La serie, inoltre, fa un grosso passo avanti nella rappresentazione di tutti i personaggi femminili, non solo inventando una donna forte come Claire, ma anche migliorando l'immagine dell'intraprendente giornalista Zoe Barnes (nel libro Mattie Storin), per la quale viene inventata una relazione di "reciproco sfruttamento" con Underwood, e della malinconica Christina, fedele assistente e compagna del tormentato deputato Peter Russo, che nel libro era in realtà un addetto stampa con problemi di alcolismo. Entrambe sono raffigurate come più pratiche e meno propense ai piagnistei, oltre che poco inclini a gettarsi tremanti con i seni prosperosi fra le forti braccia del maschio protettore, come accade nel romanzo; va detto che anche qui c'è qualche caduta di stile con dialoghi da soap opera, soprattutto nelle sequenze intime fra Frank e Zoe, in cui lei dice battute tipo "Avevi detto che mi avresti fatto soffrire ma non l'hai fatto" oppure "Se hai bisogno di una troia posso fare la troia", che onestamente suonano abbastanza ridicole. Così come appare abbastanza assurdo che una giornalista precaria si senta in diritto di bussare alla porta di casa di un membro del Congresso alle 10 di sera solo perché in possesso di una foto in cui lui ammira di sfuggita il suo didietro. In ogni caso, l'interpretazione che ne dà l'attrice Kate Mara, sorella della più celebre Rooney, è piuttosto convincente per determinazione, anche se il fisico adolescenziale e gli occhioni cerbiattosi non si adattano molto all'immagine della giornalista d'assalto, per quanto giovane e inesperta. Dal libro al telefilm: House of CardsVista la facilità con cui si finisce per empatizzare con Underwood, alcuni critici statunitensi hanno condannato lo show perché sembra esaltare comportamenti estremamente spregevoli che nella vita di tutti i giorni ci affretteremmo a condannare e perché sembra voler lanciare il messaggio che l'unico modo per vedere le cose fatte è quello di Frank, ovvero dimenticare gli ideali e "fare la cosa sporca per un bene più grande". Da noi invece alcuni quotidiani di destra hanno colto l'occasione per fare di House of Cards il portabandiera di un "giusto" arrivismo senza "falsi" moralismi (tanto più che Underwood, pur appartenendo al partito democratico, con le sue macchinazioni sembra portare avanti un'agenda piuttosto destrorsa tesa a tutelare gli interessi di una ristretta élite). Sinceramente, al di là della simpatia che Frank e Claire possano ispirarmi, non mi è mai passato per l'anticamera del cervello di considerarli altro che una coppia di str***i e più che esaltare determinati comportamenti mi è sembrato che il telefilm mirasse soprattutto a analizzare con realismo situazioni quotidiane più che possibili, soprattutto negli ambienti di potere.

Nel complesso possiamo quindi dire che Fincher & co. hanno fatto un ottimo lavoro di trasposizione, esaltando gli aspetti più intriganti del romanzo di Dobbs e attualizzando le parti più datate oltre che conferendo ai personaggi uno spessore psicologico che sulla carta mancava; a ciò si aggiungono una regia e una fotografia di altissimo livello che, fin dalla sigla iniziale, sposa perfettamente gli ambienti asettici e carichi di efficienza delle stanze del potere con la malinconia desolazione delle aree meno fortunate della città.


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