Voglio ora raccontare una vicenda che vede protagonista una mia antenata, esattamente la mia tris-nonna Savarìn (Severina).
Una donna, che come tutte in Valstrona, ha dovuto combattere quotidianamente per vivere di poco e niente, in una valle aspra, dove non esistono dolci pascoli, anzi, dove i prati sono ripidi, magri e pericolosi per la gente e le bestie. Dove un piccolo fazzoletto di terra da coltivare con patate, fagioli, segale e canapa, da cui si otteneva la preziosa tela (la teila del cà), era con gli armenti, unico sostentamento per la famiglia.
Tutto questo era in mano alle donne, mentre gli uomini dovevano emigrare per ottenere comunque modesti guadagni. Solo chi andava”an la Magna”(in Germagna) tornava con qualche ricchezza in più.
Anche”papà Jàcu”(nonno Giacomo), marito della”mama Savarìn”, dovette partire per sostenere la famiglia. Era peltraio, lavorava e vendeva oggetti e utensili da cucina a Torino,dove vi passava gran parte dell’anno.Un brutto giorno di primavera tornò malato, diceva di essere stato pestato da certa gente invidiosa di quello che era riuscito a fare con il suo lavoro; dopo alcune settimane, in cui la sua salute andava solo peggiorando, morì e fu così che la mama Savarìn rimase vedova, con una sola figlia, Beta, sopravvissuta.Infatti, per quattro volte, aveva dovuto vedere passare i suoi figli fra le braccia della Talèna, che dopo il rito del funerale li faceva scivolare”an tal bòcc”: nella fossa comune dei neonati, sotto alla cappella del sepolcro.Mama Savarìn, suo padre e la figlia, duvenuta una bella giovinetta, vivevano a Luzzogno, in una casa poco più sopra la piazza di S.Rocco. In primavera salivano al Ciàrèi, un alpeggio non lontano dal paese, che li ospitava fino a dicembre, se l’inverno non anticipava troppo con le abbondanti nevicate, quando poi rientravano in paese con le loro bestie.Fu proprio al Ciàrèi che si svolsero i fatti tremendi che fecere parlare tutta la valle, fino al mercato di Omegna, dove tutti si chiedevano cosa fosse successo a quella povera donna di Luzzogno. La gente di montagna,si sa,è nota per gli slanci di generosità e di reciproco aiuto, ma il bene e il male è ed era ovunque, anche fra quella povera gente, che oltre alle fatiche quotidiane si vedeva costretta a scontarsi con la prepotenza di pochi.Vi era una famiglia infatti che quasi tutti i giorni pretendeva di passare sulle proprietà dei miei antenati, perché più comodo il passaggio con le mucche, che potevano anche abbeverarsi alla piccola fonte che sgorgava vicino al “casòn”, non mancando in oltre di fare dispetti come sparpagliare il fieno steso. A nulla valsero le lamentele, le angherie continuavano e una mattina di primavera già avanzata, Savarìn dal balcone vide arrivare tre sorelle con le mucche, spedite verso il pascolo, e per l’ennesima volta passarono sul suo prato. Il padre era vicino alla fonte, stava costruendo una “ciùpìa”(staccionata)per evitare proprio il loro passaggio. Savarìn, temendo che potessero far del male al povero vecchio, corse a far valere le sue ragioni. Arrivata vicino alla fonte prese le difese del padre, ma non si sarebbe mai aspettata la reazione violenta di una delle tre sorelle che spinse a terra l’uomo e senza tanti scrupoli prese la zappa lì a terra e sferzò un colpo secco sulla testa della Savarìn. Non fù abbastanza lesta nello schivare il colpo che la ferì gravemente, staccandole quasi di netto tutto lo scalpo, facendole rovesciare le trecce raccolte in cima al capo,sulla spalla.La sfortunata donna lottò fra la vita e la morte per settimane.
Sì perché per la gente di montagna, superstiziosa o meno, giuramenti e false testimonianze, hanno sempre portato conseguenze che, forse noi moderni non prendiamo in considerazione; quelle parole facevano parte della loro coscienza e pronunciarle o meno distingueva il valore di una persona.Barbara Piana