L'assenza di una vera classe dirigente pentastellata, il difficile rapporto tra la leadership forte e la democrazia diretta e la direzione che deve prendere il Movimento. Parla Marco Tarchi, politologo e studioso dei fenomeni populisti (Fonte: l'Espresso. Intervista di David Allegranti a Marco Tarchi)
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La stagione politica è appena ricominciata. Dopo la scoppola presa alle Europee, curata dal leader Beppe Grillo con il Maalox, il M5S prova a rianimarsi. I punti critici non mancano: dal complicato rapporto fra leadership e assemblearismo alla qualità della classe dirigente. Dal 10 al 12 ottobre, Grillo riunirà eletti e simpatizzanti al Circo Massimo, a Roma (sempre che arrivi l’autorizzazione alla manifestazione...). Ne abbiamo parlato con Marco Tarchi, politologo e studioso di populismo, autore de “L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi”, pubblicato una decina di anni fa dal Mulino.
Il M5S, dopo un anno e mezzo in Parlamento, continua ad avere un problema di classe dirigente?
«È inevitabile che sia così. Finché perdurerà un processo di selezione affidato esclusivamente all’autopromozione in Rete, sul modello delle “parlamentarie”, a livello nazionale, o al giudizio degli iscritti ai meetup, a livello locale, il rischio di incappare in personaggi poco affidabili, più disposti a coltivare ambizioni personali che a difendere una linea politica o di pensiero, resterà elevato. Va tenuto presente che siamo di fronte, nella maggior parte dei casi, a neofiti della politica, di formazione culturale eterogenea, che sono stati attratti da un movimento che esprimeva soprattutto un potenziale di protesta e che, a partire dal 2012, ha mostrato forti capacità di aggregazione di consensi».
E adesso al Movimento servirebbe un po’ di scuola politica?
«Senza un’intensa opera di formazione preventiva, che non si può svolgere solo tramite chat telematiche o sporadiche iniziative sul territorio, un gruppo politico nuovo non può creare in breve tempo una classe dirigente efficace e compatta. Certe leggi della politica neanche internet può demolirle, almeno per adesso».
Qual è, attualmente, il maggior punto critico dei Cinque Stelle?
«La convinzione che una linea d’azione incisiva possa essere non solo decisa ma anche costantemente ridiscussa dal basso, che l’assemblearismo consenta di trovare una sintesi delle diverse posizioni individuali sempre e comunque, che si possa fare a meno di una leadership certa e ci si debba affidare solo a portavoce. Queste, da sempre, sono caratteristiche dei movimenti collettivi, che per loro natura hanno un’esistenza fluida e fluttuante e finiscono per estinguersi in breve tempo, mandando in briciole tanto il potenziale attivistico quanto il gruppo dirigente che si era formato sul campo. Il grande problema dei Cinque Stelle è la scelta - obbligata - di un modello organizzativo».
Con la nuova stagione politica appena cominciata, si attende un’evoluzione del M5S? Ci sono le condizioni per farlo?
«Il maggior errore che il M5S potrebbe fare è rinunciare a coagulare i sentimenti di insoddisfazione, disagio, protesta che lo hanno portato ai clamorosi successi degli ultimi anni. Chi, dall’interno o dall’esterno, fin dall’indomani delle elezioni politiche del 2013 lo invita e lo incita a cambiar pelle, ad assumere una linea “più ragionevole”, a passare alla collaborazione con il Pd per risultare “incisivo” sul terreno delle riforme, ne vuole, ingenuamente o per calcolo inconfessabile, l’estinzione».
Il M5S quindi deve mantenere una linea dura?
«Piaccia o non piaccia a una parte dei suoi iscritti e a taluni sponsor giornalistici, gli inattesi risultati ottenuti dalle liste grilline sono il frutto del discorso pubblico di Beppe Grillo, con i suoi contenuti populisti a pieni carati, non al pur rispettabilissimo lavoro sul campo svolto dai meet-up da alcuni anni a questa parte o alle linee-guida contenute nel non-Statuto o in altri documenti elaborati dal movimento».
Si affacciano, ciclicamente, nuove presunte leadership, da Alessandro Di Battista a Luigi Di Maio. Secondo lei è possibile un M5S senza Beppe Grillo?
«Quantomeno per ora, certamente no. È stato Grillo il catalizzatore di consensi del M5S dalla nascita ad oggi. Penso che nessuno possa negarlo. Il fatto è che lo rimane. Gran parte degli effettivi o potenziali sostenitori del movimento non ha la benché minima idea di cosa significhino, dal punto di vista dei contenuti, le cinque Stelle contenute nel nome; non ne ha mai letto il non-Statuto o un programma e non intende farlo; non si è iscritta a un meetup e non ne ha frequentato le iniziative, e soprattutto non intende “sporcarsi le mani” in forme diverse dalla partecipazione elettorale in un mondo qual è quello della politica, verso il quale prova, se non ripugnanza, al minimo una marcata diffidenza. In questo senso, il M5S replica, senza variazioni di rilievo, la situazione nella quale si trovano un po’ in tutta Europa le formazioni populiste».
Non si può fare a meno insomma del Casalgrillo (Casaleggio + Grillo)?
«Al di là di quel che si pensi del modo in cui lo svolgono, il ruolo di indirizzo e di controllo sempre più stringente esercitato da Grillo e Casaleggio è, per l’attuale M5S, l’unica relativa garanzia contro il rischio di esplosione delle opinioni e ambizioni individuali, che dalle cinque stelle attuali porterebbe ad un firmamento di asteroidi, satelliti, pianetini e, soprattutto, meteore incandescenti».
Ancora non sembra essere risolto il problema del rapporto fra l’esercizio della leadership e l’orizzontalità delle decisioni (via assemblearismo). Come si possono tenere insieme le due cose senza cadere in contraddizione?
«Questo è un problema che affligge da sempre i teorici e gli estimatori della democrazia diretta. In un’epoca in cui la classe dei politici di professione si è ampiamente squalificata di fronte alla pubblica opinione, è logico che i cittadini tendano ad esigere uno stretto rispetto delle proprie aspettative da parte di coloro a cui hanno affidato un mandato rappresentativo e pretendano una maggiore trasparenza delle loro azioni. Che si voglia rimediare a una situazione del genere chiedendo più controllo dal basso è comprensibile, ma - come appunto il caso del M5S dimostra - difficilmente risolve il problema. La complessità dei problemi e la necessità di risolverli in tempi ragionevolmente brevi impedisce un efficace utilizzo degli strumenti assembleari».
Secondo lei ha ragione Grillo quando dice che se non ci fosse stato il M5S, in Italia oggi esisterebbero formazioni di estrema destra (una Alba Dorata all’italiana) in grado di raccogliere molti voti?
«Sì e no. Perché sarebbe corretto dire che, senza la capacità di presa di Grillo, il discorso populista e la mentalità, oggi molto diffusa, che lo sottintende e lo esprime avrebbero trovato altri interpreti, come è avvenuto nel recente passato con i vari Bossi, Di Pietro, Berlusconi, Pannella e via dicendo. Dubito però che il populismo Italian Style avrebbe assunto una coloritura di estrema destra».
E perché?
«L’Italia non è la Grecia, né l’Ungheria di Jobbik: avrebbe potuto gradire un nazional-populismo dai toni decisamente più sfumati, come quello del Front National della gestione di Marine Le Pen, o dell’Ukip britannica, con qualche variazione più aggressiva nel linguaggio ma certamente non antidemocratica. Sebbene quasi tutti i politici, e un certo numero di studiosi e giornalisti, facciano fatica ad ammetterlo, il populismo odierno non coincide - se non in casi marginali e limitati - con l’estrema destra. È un fenomeno trasversale, compatibile con la democrazia e di forte capacità di diffusione. Anche chi volesse combatterlo farà bene a prenderne le misure, smettendola di agitare fantasmi fuori tempo. Grillo, quando accetta di proclamarsi “fieramente populista” o si allea in un gruppo parlamentare a Strasburgo con Farrage, dimostra di averlo capito».
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