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Dall'Italia di Renzi è sparito il meridione

Creato il 08 settembre 2015 da Tafanus

Ma il Sud si è accorto di non rientrare nei piani di Renzi? Nell'ultimo numero in edicola de l'Espresso l'editoriale del Direttore Luigi Vicinanza segna la crescente Lontananza del giornale dal renzuskoni degli innamoramenti iniziali, di linea debenedettiana. Che si possa ancora sperare? Tafanus

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Renzi aveva annunciato gli "stati generali del Sud", di cui s'è persa traccia. E quella terra assomiglia sempre alla celebre definizione di Benedetto Croce: "Un Paradiso abitato da Diavoli"
(di Luigi Vicinanza - l'Espresso)
Un paradiso abitato da diavoli questo Mezzogiorno renziano. Delizia e dannazione. Serbatoio di voti preziosi e fucina di emergenze perenni. Terra incognita, dove si amplificano tutti i mali di una nazione. Persino Roma si è risvegliata all'improvviso
meridionalizzata. Sotto gli sguardi distratti delle sue classi dirigenti, lontana dalla passione civile che anima la sua intellettualità. Mafia Capitale ed è stato uno choc, tra chi ha provato a negare la natura mafiosa del malaffare e chi si è ostinato a non capire, primo tra questi l'evanescente Marino.
Il Sud dunque come dimensione dell'immobilismo tumultuoso. Distillato di problemi da aggredire senza che ciò mai accada. È stato così negli ultimi trent'anni. Un destino da ribaltare, nella stagione del premier-segretario, con timidi segnali di calo della disoccupazione e il Pil in ripresa di uno zero qualcosa.
«Dobbiamo uscire dalla cultura della rassegnazione», disse Renzi un anno fa, vigilia di Ferragosto, nella sua prima visita da capo del governo nelle grandi città meridionali. «Il vero problema del Mezzogiorno è la mancanza di politica, non dei soldi», ha sottolineato un mese fa davanti alla direzione del Pd convocata d'urgenza. Era il 7 agosto, un venerdì immediatamente prima del liberi tutti. Titoli assicurati nei tg e sui quotidiani sull'onda dello stupore suscitato dai dati contenuti nel rapporto Svimez: il Sud - è la tesi degli analisti della storica associazione di ricerca sulle condizioni economiche del Mezzogiorno - sta messo peggio della Grecia. Dal 2000 al 2013 le sette regioni dell'antico regno borbonico con l'aggiunta della Sardegna hanno segnato un incremento della ricchezza di un misero 13 per cento del Pil contro il 24 della semifallita Atene. Peggio, molto peggio della grande ammalata d'Europa.
Strano destino, per questo nostro pezzo d'Italia: per mesi l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale è stata giustamente concentrata sulle sorti della vicina Grecia e dunque sulla capacità di resistenza dell'euro. Mentre da anni il Mezzogiorno d'Italia è alla deriva, prigioniero di una secessione non dichiarata ma praticata nei fatti dalle classi dirigenti di qualsiasi area geografica del Paese.
Dunque, "È sparito il Sud", titolo di copertina del numero di questa settimana. I servizi di Marco Damilano e Sabina Minardi analizzano le cause di un fallimento sociale, politico, economico e persino culturale: dalla dissipazione dei fondi europei (raccontiamo le vicende incrociate di Crotone in Calabria e di Rzeszów in Polonia); alla conflittualità della politica (per la prima volta tutti i presidenti delle regioni meridionali sono targati Pd, ma in continuità con il passato come insegna la Sicilia di Rosario Crocetta); fino all'ultima
bandiera strappata dell'orgoglio sudista: la cultura. Costretta ad emigrare insieme alla meglio gioventù. È in crisi anche la formazione del capitale umano coltivata in atenei con sempre meno soldi e meno studenti. È l'altra faccia della desertificazione del Sud.
Da "l'Espresso" un contributo di informazioni al dibattito nazionale che Renzi aveva auspicato in quella riunione di inizio agosto. Alla quale sarebbe dovuta seguire un'assemblea degli "stati generali" del Sud di cui nel frattempo si è persa traccia. Il presidente del Consiglio invece parlerà a Bari all'annuale fiera del Levante sabato 12 settembre. Come prima di lui hanno fatti tutti i capi del governo della prima e della seconda Repubblica. È atteso un masterplan con, si spera, interventi e tempi definiti. Benvenuto al Sud.

Colpisce, nella retorica del Partito democratico, un dato di fatto: il meridione è assente dal programma ufficiale della Festa nazionale dell'Unità.  A Milano nei 13 giorni di incontri e dibattiti governatori e sindaci del Sud sono stati tenuti alla larga. Solo sabato 5 settembre, informa "il Mattino" di Napoli, è stato ricavato un buco: in un orario non proprio di punta, le 10 del mattino, ci sarà un seminario coordinato da Debora Serracchiani, vicesegretario del partito ma innanzitutto presidente del Friuli Venezia Giulia. E gli
ingombranti Emiliano e De Luca?  "Un paradiso abitato da diavoli" è il titolo di un celebre discorso pronunciato dal filosofo Benedetto Croce. Era il 1923, quasi cent'anni fa…
Luigi Vicinanza
È sparito il Sud. Crollo delle nascite. Città abbandonate. Economia immobile. E nessuna strategia. Un terzo del Paese è come dimenticato. Scomparso dalle  mappe. Per il governo, la sfida più difficile. Sempre che voglia davvero affrontarla
(di Marco Damilano)
Desertificazione industriale. Assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie. Rischio povertà. E crollo demografico: «Nel 2014 al Sud si sono registrate solo 174 mila nascite, livello al minimo storico registrato oltre 150 anni fa, durante l'Unità d'Italia: il
Sud sarà interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili». Sottosviluppo permanente. Prima della pausa estiva il rapporto 2015 dello Svimez aveva fotografato la catastrofe del Mezzogiorno dopo quasi
settant'anni di Repubblica. Un paese povero in un paese ricco, un paese immobile in un paese in trasformazione. Nelle regioni del Sud si viaggia in pullman e per arrivare a Matera, capitale della cultura europea 2019 si prende la ferrovia appulo-lucana. Un mondo separato, per parafrasare Pier Paolo Pasolini, che condiziona la fragile crescita italiana e il calo della disoccupazione rivelato dall'Istat in questi giorni. Un mondo dimenticato, sparito dalle mappe della politica italiana, terra di approdo per i migranti in arrivo dall'Africa e alla deriva nel Mediterraneo, terra di fuga per le giovani generazioni. Un mondo che sprofonda nell'illegalità e nel sopruso mafioso. Inevitabile banco di prova per il governo di Matteo Renzi che in seguito alla pubblicazione del rapporto Svimez e alla lettera aperta di Roberto Saviano («Caro premier, il Sud sta morendo») aveva convocato all'inizio di agosto una direzione del Pd sul Mezzogiorno. Con l'annuncio per l'autunno degli "Stati Generali" dello sviluppo convocati dal ministro Federica Guidi. E un progetto del Pd da presentare nei prossimi giorni, prima dell'approvazione della legge di Stabilità di fine mese.

Un masterplan, il piano Renzi per il Sud. Nell'attesa, il 12 settembre il premier sarà a Bari per inaugurare la fiera del Levante, tradizionale vetrina del presidente del Consiglio di turno per impegni, promesse, assicurazioni sulle politiche meridionali destinate a
essere disattese. Il primo a farlo fu Benito Mussolini, nel 1934, per la quinta edizione, poi tutti i capi di governo democristiani, a partire dal pugliese Aldo Moro, tradizione interrotta da Silvio Berlusconi. A Bari Renzi è intervenuto un anno fa, nel 2013 negli stessi padiglioni lanciò la sua candidatura alla segreteria del Pd. Mai, però, si è realizzata una condizione politica così favorevole. Tutti i presidenti delle regioni meridionali, dall'Abruzzo alla Sicilia, passando per Campania, Puglia, Molise, Basilicata, Calabria e Sardegna, militano nell'area del Partito democratico e guidano giunte di centrosinistra: il campano Vincenzo De Luca, il pugliese Michele Emiliano, il calabrese Mario Oliverio, l'abruzzese Luciano D'Alfonso, il lucano Marcello Pittella, il sardo Francesco Pigliaru, il molisano Paolo Di Laura Frattura, il siciliano Rosario Crocetta.
Un parterre solo ideale, per adesso. Michele Emiliano li avrebbe voluti riunire tutti all'inaugurazione della fiera del Levante: i governatori sudisti del Pd seduti in prima fila ad ascoltare Renzi. Ma la foto di gruppo, almeno per ora, non si farà. Da Palazzo Chigi
è partito un giro di telefonate con un invito esplicito: restate a casa. Meglio stroncare sul nascere qualunque ipotesi di partito del Sud dentro il PdR, il partito di Renzi. E, in ogni caso, a fare le convocazioni deve essere soltanto uno, il premier-segretario, non il
governatore pugliese, da mesi nel mirino degli spin renziani come potenziale ribelle contro il governo nazionale. Tra Renzi e Emiliano i rapporti sono interrotti da maggio, da quando l'ex sindaco di Firenze chiamò l'ex sindaco di Bari per avvisarlo gelidamente che non sarebbe andato in Puglia a fare campagna elettorale per lui. Colpa della posizione di Emiliano ostile alla riforma della scuola. Una freddezza che svela come la potenza del partito renziano al Sud (nel nuovo Senato previsto dalla riforma costituzionale, composto
dai designati dei consigli regionali, a Palazzo Madama la rappresentanza del Meridione sarebbe quasi interamente in mano al Pd), in apparenza un monocolore, sia nella realtà un poliedro con molte sfaccettature. Tanti e diversi sono i Pd almeno quanti sono i Sud
d'Italia. E la grande occasione per il Pd potrebbe rovesciarsi in una terribile responsabilità. In mezzo ad alcuni timidissimi segnali di ripresa, flebili luci accese nel buio pesto disegnato dal rapporto Svimez. Il primo aumento dell'occupazione da molti anni a questa parte, il + 0,8 per cento del primo trimestre 2015 segnalato da Confindustria. L'incremento di spesa dei fondi strutturali europei, all'inizio di agosto il dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica del governo ha pubblicato gli ultimi dati, le spese effettivamente sostenute fino al 30 giugno 2015 per 52 programmi operativi regionali sono 37,3 miliardi di euro, il 79,8 per cento delle risorse programmate nel periodo 2007-2013, in aumento rispetto al 2014, anche se alla fine dell'anno resteranno da spendere 9,4 miliardi di euro. E anche se, come hanno dimostrato gli economisti Emanuele Ciani e Guido De Blasio in un report pubblicato da lavoce.info, il
problema non è il quanto si spende, ma il come, e l'impatto effettivo dei finanziamenti sull'occupazione è vicino allo zero: «Un aumento dell'esecuzione finanziaria degli stanziamenti potrebbe non essere, di per sé, sufficiente: visto che questi finanziamenti non sembrano essere in grado di apportare benefici, varrebbe la pena di impegnarsi per spenderli meglio».
Conclusione in linea con quanto affermato da Renzi: basta con i piagnistei e con la richiesta di nuove risorse, di nuova spesa pubblica, per il Sud servono investimenti privati. E un racconto diverso, far emergere un altro meridione nell'immagine trasmessa all'estero. La comunicazione, lo storytelling, l'apriti Sesamo di ogni politica renziana. Che rischia di apparire lontano. E di infrangersi su piaghe antiche, la presenza della mafia e la sua capacità di inquinare la politica e l'economia, e su difficoltà più recenti, l'assenza di una classe dirigente nazionale che metta al centro la questione meridionale, il rapporto distorto con i territori locali. Le classi dirigenti «estrattive», le ha definite l'ex ministro Fabrizio Barca, «che drenano risorse dai territori ostacolandone la modernizzazione, quelle leadership locali che tendono a far sì che tutto rimanga immobile affinché possano conservare, senza intralci, le loro posizioni dominanti».
Quelle leadership oggi sono nel Sud in gran parte espressione del Pd. E tocca a loro incarnare il cambiamento, la via alla trasformazione del Sud, se mai ne esiste una. Ma nel Mezzogiorno oscillano tra modelli storici e letterari, tra i gattopardi e i viceré, con l'eterna tentazione del ribellismo, i Masaniello scagliati contro il potere centrale. «Renzi torna a centralizzare le funzioni dello Stato, ma non c'è possibilità di farlo per via partitica, bisogna passare dalle macchine istituzionali, al Sud più che altrove», spiega il politologo Mauro Calise. «Torniamo a un sistema pre-moderno, neo-imperiale. Al centro c'è il leader che non può controllare tutto.
Deve sperare di trovare nel meridione una classe di feudatari che riescano a fare da traino ai loro territori. Governatori decisionisti, con il piglio e la determinazione necessari per trascinare la loro regione nel processo di riforma dello Stato che Renzi sta cercando di promuovere dall'alto».
Il governatore della Campania Vincenzo De Luca è stato il più rapido ad aderire a questo modello. Poteva trasformarsi in una bomba a orologeria per Renzi che aveva provato ad ostacolare la sua candidatura. Ma ora che è stato eletto ed è stato superato l'ostacolo della legge Severino che lo avrebbe dovuto sospendere dalle funzioni di presidente, De Luca punta a conquistare la leadership al Sud del nuovo corso renziano con la stessa formula del premier: concentrazione di potere nelle mani del leader e decisionismo. In una regione dove il governo di Roma fatica a decidere. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris proclama la città territorio de-renzizzato, il commissariamento di Bagnoli continua a essere rimandato nonostante le promesse di Renzi. E la nuova classe dirigente non si vede. A Salerno, per la successione di De Luca, sono in corsa i figli, Piero e Roberto. A Napoli il Pd ha divorato un nome dopo l'altro e alla fine resta in piedi il sindaco degli anni Novanta Antonio Bassolino che si gode sornione lo spettacolo della riabilitazione totale anche da parte dei suoi nemici storici. Come De Luca che ha affidato il compito di rimettere in moto la disastrata macchina burocratica alla vice-capo di gabinetto Maria Grazia Falciatore che affiancò Bassolino in regione.
In Puglia Emiliano sembra seguire la strada opposta: scatenare l'orgoglio del territorio, «sono il presidente della Puglia, non del Pd», anche a costo di dare qualche dispiacere all'uomo di Palazzo Chigi: sulla riforma della scuola, sulle trivellazioni, sul decreto Ilva, sullo stop al gasdotto azero in Salento, il Tap. Mantiene rapporti trasversali, dal dialogo con gli ex berlusconiani come Raffaele Fitto e con il Movimento 5 Stelle, a lungo corteggiato con l'offerta di un assessorato. «Governo in una condizione di Ulivo 2.0, sto cercando di mettere insieme un'alleanza che permetta al Pd nazionale di non dover dipendere da Denis Verdini sulla riforma del Senato», spiega Emiliano che si è appena dimesso dalla carica di segretario del Pd ma che in Puglia rappresenta decisamente l'uomo forte. «Io ho detto a Renzi: vieni ad abbracciare il Sud. Il Sud è la mafia, ma anche l'antimafia, siamo noi la causa del nostro sottosviluppo ma anche la chiave della nostra possibile rinascita. Renzi deve sapere che noi siamo disponibili, ma non possiamo essere convocati a bacchetta o sottoposti a strategie improvvisate». E c'è infine il modello siciliano rappresentato da Rosario Crocetta: desideroso di accreditarsi ma isolato nel Pd nazionale.
I tanti Pd sono chiamati a governare i drammi e le emergenze dei tanti Sud d'Italia. Se lo sforzo dovesse fallire un pezzo di elettorato meridionale, come in altre stagioni della storia repubblicana, è pronto alla rivolta, al voto per il Movimento 5 Stelle, nella scomparsa dei tradizionali referenti politici, la sinistra, il moderatismo. Per questo è sulla nuova questione meridionale che si giocherà la vittoria o la sconfitta del governo di Roma, di Matteo Renzi.
Marco Damilano
E per chi  c'è solo la fuga - Da Napoli a Palermo, le università meridionali perdono matricole, docenti, fondi e punti nelle classifiche. Un fenomeno che riflette e accentua il divario del Paese
(di Sabina Minardi)
In vetta il Nord, a partire da Siena. E Bologna, Padova, Trento, secondo i ranking del Censis per la "Grande Guida Università" di "Repubblica". In basso il Sud, e un gap con le regioni settentrionali che si consolida di anno in anno. Ai primi posti Verona, Trento,
Milano, Bologna, Padova. In fondo Calabria-Rende, Palermo, Catania, Napoli, Cagliari, Bari, per la Classifica Università 2015 del Sole 24-Ore.
Brutali, sintetiche, senza attenuanti, le liste sui migliori atenei fotografano una realtà spaccata in due. Esattamente come l'Italia: il Sud cresce meno del resto del Paese; il Pil continua a scendere mentre al Nord sale; il tema delle risorse ferme al palo per incapacità e cattiva politica riaccende la questione meridionale. E non c'è solo la desertificazione industriale a far paura: anche lo stato delle università del Sud riflette quel rischio di "sottosviluppo permanente" additato dallo Svimez. Storici avamposti di cultura come l'università Federico II di Napoli faticano a mantenere il numero degli studenti. Presidi territoriali come l'Università di Palermo o di Bari arrancano dietro più giovani atenei del Nord, perdendo il loro ruolo di punto di riferimento. La crisi del Mezzogiorno è anche erosione di un intero patrimonio culturale.
UN TRENO PER IL NORD - Meno studenti; finanziamenti ridotti; sostegno scarso al diritto allo studio. E territori che offrono sempre meno. L'elenco dei mali dell'università del Sud è lungo. Ma ce n'è uno che è già causa ed effetto della cronicizzazione del malessere: l'esodo verso le regioni del Nord. «La fuga intellettuale è la nuova emigrazione meridionale», dice Roberto Lagalla, il rettore uscente dell'università di Palermo: «Accade alla fine del liceo o del primo ciclo dell'università, ed è dettata da due ragioni: la depressione del mondo delle imprese e l'idea che al Sud si dia più sostegno alla marginalità sociale che ai talenti e a chi ha competenze più alte.

Così si favorisce la fuga dei più bravi». In Sicilia, il 30 per cento degli studenti residenti prosegue gli studi al Nord. Intanto il Politecnico di Torino dà i numeri delle preimmatricolazioni: oltre 10 mila, il 60 per cento da Puglia, Sicilia, Sardegna, Calabria. «Sono preoccupatissimo per l'emigrazione studentesca», gli fa eco Gaetano Manfredi, rettore della Federico II di Napoli, 85 mila iscritti e 10 mila laureati all'anno, ultima nella classifica Censis: «Se una regione perde il suo capitale umano non ha futuro. La colpa non è di chi va via - seguire le opportunità è legittimo- ma della meritocrazia messa in discussione». Il tasso di occupazione è, per Almalaurea, del 52,5 per cento tra i laureati del Nord e del 35 al Sud. A un anno dalla laurea i ragazzi del Nord hanno uno stipendio più alto del 24 per cento rispetto ai colleghi meridionali. Non a caso, a cinque anni dalla tesi le regioni del Sud, secondo il "Profilo dei laureati 2014", perdono il 39 per cento dei laureati. Partendo da un numero già più basso: se la media nazionale, nella fascia 25-34 anni, è del 21 per cento (contro il 39 in ambito Ocse), i laureati al Sud sono il 18,9. La Puglia è tra le prime regioni investite dalla diaspora.
«I ragazzi ricchi del Nord vanno all'estero; quelli del Sud, che possono permettersi di studiare fuori, vanno al Nord; quelli poveri restano qua», nota Antonio Felice Uricchio, rettore dell'università di Bari, 50 mila studenti, al settimo posto tra gli undici mega


atenei per il Censis: «Questa università ha 8000 studenti meritevoli che, per ragioni di reddito, non pagano le tasse. L'università ha
un ruolo sociale decisivo: a Bari, l'80 per cento degli studenti ha genitori non laureati. Lo studio è ancora un ascensore sociale».
Cresce il numero di chi non la pensa così.
MENO ISCRITTI OGNI ANNO - Calo demografico. Futuro incerto. Minore disponibilità economica. E una sensazione avanza: che studiare non serva più. Scrive il Rapporto Svimez: «Si inizia a credere che studiare non paghi più, alimentando una spirale di impoverimento del capitale umano, determinata da emigrazione, lunga permanenza in uno stato di disoccupazione e scoraggiamento a investire nella formazione avanzata. I 3 milioni 512 mila giovani Neet (che non hanno e non cercano una occupazione) nel 2014, sono aumentati di oltre il 25 per cento rispetto al 2008. Di questi, quasi due milioni sono donne, e quasi due milioni sono meridionali». Risultato? Rispetto a dieci anni fa, secondo l'Anagrafe degli studenti del Ministero dell'Istruzione, il Sud ha perso 45 mila iscritti all'università, mentre in alcune regioni del Nord come Lombardia, Piemonte e Trentino-Alto Adige sono cresciuti. Dal 2008 al 2012 la Sicilia ha perso il 19,7 per cento di studenti, seguita da Molise e Umbria (-18,7 e -18,6), e Puglia (-14,8).
«La Campania soffre meno la migrazione studentesca fuori regione -la percentuale è del 15 per cento- e molto di più la fuga dei
laureati», sottolinea Manfredi: «Il profondo calo delle iscrizioni è un fenomeno pericoloso perché riguarda le fasce più deboli.
Specialmente i ragazzi delle scuole tecnico-professionali non proseguono gli studi. Non ce la fanno, soprattutto per il venir meno del
sostegno del diritto allo studio».
DIRITTO ALLO STUDIO IN CRISI - L'università vive un'emergenza nel suo complesso: è fanalino di coda rispetto al resto d'Europa per risorse investite. Al Sud l'effetto è più evidente. «Le politiche nei confronti dell'università non sono irrilevanti rispetto al calo della popolazione studentesca», conferma Stefano Paleari, presidente della Conferenza dei rettori universitari italiani e rettore dell'Università di Bergamo: «L'università ha subito in questi anni i tagli più grossi della spesa pubblica: ha perso il 15 per cento delle risorse umane e il 13 per cento dei fondi (che arrivano al 20 considerando i finanziamenti corretti a causa dell'inflazione). Un quinto delle risorse in 5 anni. Ma se si tolgono i soldi per il diritto allo studio l'articolo 34 della Costituzione, sul diritto per tutti di raggiungere i gradi più alti degli studi, non è rispettato». Il Fondo di finanziamento ordinario è di circa 6 miliardi e mezzo. «Concretamente, le università del Sud hanno perso in media il 18,8 per cento del Fondo di finanziamento; quelle del Nord il 7», sostiene il rettore di Palermo Lagalla: «La mia università conta 44 mila iscritti: 1000-1500 abbandonano dopo il primo anno perché non riescono a pagare le tasse. La regione copre il 37 per cento. Non basta. In questo ateneo gli immatricolati sono stati 6.500 nel biennio 2012-2013; 6618 tra il 2013 e il 2014, 6644 nel 2014-15. Nonostante le difficoltà sono cresciuti. Gli iscritti, tra il 2011 e il 2015, sono diminuiti del 20-25 per cento: ma abbiamo laureato 11mila fuori corso, promuovendo l'idea che l'università non è luogo in cui stazionare». La quota di giovani che termina gli studi nei tempi previsti è, sul piano nazionale, in crescita: il 15 per cento nel 2004, il 43 nel 2013. Anche su questo fronte al Sud è un'altra storia.
EFFETTO GELMINI - Tante università, forse troppe: l'Abruzzo, un milione 300mila abitanti, ne ha tre (L'Aquila, Teramo, Chieti-Pescara); l'Emilia Romagna quattro (Bologna, Ferrara, Reggio Emilia, Parma) e si potrebbe continuare. Un corpo docente vecchio: su 12 mila professori, solo 8 - stigmatizza Paleari - hanno meno di 40 anni. Un nepotismo talvolta sfacciato, da Roma a Palermo, da Napoli a Bari.
Alla riforma Gelmini l'università non è certo arrivata come un corpo integro. E dal Sud arrivano segnali ambigui: voti di laurea eneralmente più alti; test da numero chiuso aggirabili con la frequenza di università private (come l'ateneo romeno, annunciato ad Enna). Ma alcuni meccanismi favorirebbero ora le università già floride e penalizzerebbero le altre.
«L'università vive una situazione paradossale: da una parte ha subito grossi tagli; dall'altra si è data un sistema di valutazione. È
nata l'Anvur, che accredita le università; ha dato vita ai "corsi standard", che prevedono un numero di docenti in base a quello degli
studenti. Ma non esiste un parametro che misuri l'efficienza: gli sforzi fatti con le risorse a disposizione», continua Paleari: «Le
classifiche fotografano una realtà innegabile: Lombardia, Veneto e Piemonte sono un forte magnete perché sono lì le maggiori
concentrazioni industriali». In quattro anni il Sud ha perso 281 "punti organico", la possibilità per un ateneo di assumere nuovi
professori, e svecchiare il corpo docenti: il Centro Italia ne ha persi 60, il Nord ne ha guadagnati 341, informa l'associazione Return
on Academic Research: è come se 700 ricercatori fossero stati trasferiti dagli organici del Sud a quelli del Nord. I punti sono
collegati al bilancio, tasse studentesche incluse. «Centinaia di docenti e ricercatori in meno: un condizionamento forte ai corsi che
un'università può offrire», dice Uricchio: «Abbiamo perso 500 docenti in 5 anni, a fronte di 50 nuovi professori. I criteri per
l'assegnazione delle risorse vanno ripensati tenendo conto di diverse realtà: le tasse universitarie qui sono più basse.
Necessariamente».
RETTORI IN PRIMA LINEA - «Nelle città le università hanno un ruolo fondamentale. Nel Mezzogiorno di più: fabbrica di cultura e di legalità dove lo Stato è più in difficoltà», dice Manfredi: «Come si recupera? Investendo in ricerca, formazione, riportando il merito al centro. Abbiamo avviato un programma di rientro di cervelli dall'estero. Abbiamo bisogno di più servizi: i trasporti, ad esempio, sono carenti». «L'università di Bari punta su placement e internazionalizzazione», dice Uricchio. «Dobbiamo abituarci a fare di più con meno risorse», aggiunge Lagalla: «L'inserimento nel lavoro dei nostri laureati è pari a quello dei laureati del Nord. Palermo è tra le prime quindici università per internazionalizzazione. Siamo penalizzati per attrattività. Ma in un  quadro di competitività impari abbiamo mantenuto vitalità». «Si potrebbero collegare le lauree specialistiche in un Erasmus interno», auspica Paleari: «Non possiamo rassegnarci a far coincidere la geografia delle università con la geografia della produzione industriale.

L'università è una delle poche istituzioni unificanti del Paese: entri in un ateneo qualunque e ti connetti col wi-fi, sei parte di una comunità. Le università sono istituzioni fondanti delle città europee: Manchester, Stoccarda, Bologna». Se ne parlerà a Pavia, dal 9 all'11 settembre, in un convegno intitolato "Università e città". In sintesi: togli l'università, un territorio muore.
Sabina Minardi


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