dall’ultimo numero di Gradiva

Da Narcyso

Mia Lecomte, Intanto il tempo, Milano, La Vita Felice, 2012, pp.80, € 10,00.

Il cosiddetto minimalismo è quella tendenza ad abbassare il tono fino a giungere al mutismo; atteggiamento inviso a chi scrive soprattutto per accumulo semantico. Conseguenza di questo modo di procedere sarebbe, in ultima istanza, la poesia delle cose, umilissime nel loro pensiero non pensante. Mia Lecomte, in molti passaggi di questo libro, ci dice dell’utilità delle inutili cose a farci «uscire poco per volta / senza dolore in brani singoli finché / di noi non rimane più niente», p. 30. E anche Elio Grasso nella postfazione, ribadisce: «nel sistema della poesia non c’è differenza fra piccolo e grande. Un giorno è bastevole perché faccia esistere il giorno successivo, e così via. Fra i mobili dell’Ikea e gli anelli di Saturno che differenza c’è?». Un risultato rilevante, parlando delle cose e del loro sfaldarsi, è raggiunto proprio nel momento in cui Lecomte ridicolizza l’eccessiva retorica della lingua riducendola a sostanza deperibile, nella possibilità che essa possa ridiventare splendente o fangosa a seconda dell’approccio dell’ipocrita fratello, il lettore. La lingua, dunque, si accosta a qualcosa di fanciullesco, di ironicamente o tragicamente infantile, perfino con qualche balbettio o cantilena nel suono dei versi, come a dire che la poesia deve fare i conti con la complessità metaforica e di stile raggiunta, ma anche con l’immediatezza di ciò che abbiamo conosciuto e che siamo stati. Così, in uno dei testi più belli, è proprio in una casa di bambole, – memento dell’infanzia ma anche rappresentazione metaforica di una famiglia tipo – che si situa la storia delle persone e del loro dolore: «Sezione della casa. / Frontale. Mezza in ombra. / Il terzo piano è soffitta. / Rotola una palla, costante, e la polvere è viola. / Il secondo piano si flette. / Tutti i passi dei figli, a migliaia. Dei gatti. / Si flette. / Al primo piano comincia il dolore. / Lei ora è in cucina. Ha già pianto e si affretta.», p. 24. Un racconto, insomma, di ciò che di circense, di comico e di profondamente tragico compiamo tutti i giorni: «Fa ridere l’uomo che cade / per questo si concentra sul vuoto / teso fra i due estremi del passo // fa sempre ridere l’uomo che cade / se poi tiene nella mano qualcosa / che non la potrà mai appoggiare», p. 26.

Sebastiano Aglieco

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