Quando si parla di “event management” si parla generalmente di progetti e processi, di organizzazione e gestione degli imprevisti, si parla di risorse umane e volontariato…
Per nulla invece si parla di quella stravolgente sensazione che si prova una volta finito l’evento.
Io, ad esempio, lavoro un anno intero per quattro giorni di evento. Pianifico, organizzo e poi, nel ritmo in crescita esponenziale della settimana culminante, gestisco i contrattempi, risolvo problemi. Senza tregua, senza pausa. Come una macchina, come dentro una centrifuga. La bolla gira a massima velocità.
Poi, tutto finisce. Si spengono le luci, il palcoscenico viene smontato, la carovana si posta e il tuo evento è storia. Lo è già cinque minuti dopo la fine.
E tu, rimani lì, inebetito e stanco. Guardi quella che era la scena, e non vi trovi più nulla. Il telefono non squilla più e la mail box è quasi vuota.
Il problema è che il tuo corpo è ancora dentro quella centrifuga e il tuo sistema nervoso non sa che si può rilassare. Che é andata. È finita. Inizia un nuovo anno.
Senso di svuotamento, soddisfazione mista a depressione. Stanchezza assoluta eppure cervello iperattivo a elaborare già idee e soluzioni per l’anno venturo.
Dopo le Olimpiadi di Barcellona nel 1992 si registrò un impennata di depressioni. Il mondo tornava alla normalità e la gente non se ne capacitava.
Questo ritorno ha bisogno di pratica, di esperienza, di consapevolezza. Una volta ci mettevo mesi, ora in due settimane ritrovo un parziale equilibrio. Eppure, pur avendo migliorato la performance, ogni anno, questa transizione fulminea, da un incrocio nelle ore di punta nella più trafficata delle città al vuoto e al silenzio, costa immensa fatica mentale.
Su questa esperienza esclusiva e, ahimé, spesso penosa, che io sappia, non esiste letteratura. Solo noi, che ci siamo dentro, la conosciamo e alla meno peggio ce la viviamo.
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