Dalla Chiesa e l’assedio a Sagunto

Creato il 04 settembre 2012 da Casarrubea

Carlo Alberto dalla Chiesa ed Emanuela Setti Carraro

Mi balenano in mente solo immagini, scritte cubitali, numeri. Le scene del dramma che essi indicano quando compaiono sulle prime pagine dei giornali, come in un bollettino di guerra. Come se fossimo in Siria o nell’Afghanistan. Nel pieno di una guerra, con le sue centinaia di morti, con città sotto assedio, e un prefetto, un uomo, un generale, solo, in divisa, che nessuno vuole dotare di superpoteri mentre si uccide in pieno giorno, si bruciano i corpi in mezzo alle strade principali, si “trasportano i cadaveri”, si mutilano e si depositano, in modo provocatorio, tra i luoghi simbolo della legalità: la questura e la Regione.

A leggere il nuovo libro di Luciano Mirone “A Palermo per morire” su Carlo Alberto Dalla Chiesa, dovuto alla fatica del suo autore e all’intraprendenza dell’editore Castelvecchi, c’è da pensare che molte tragedie del nostro tempo, si possono rappresentare con poche immagini. Più eloquenti delle parole, come il crepitare dei mitra, i boati delle bombe, gli spari dei cannoni.

Le testate dei giornali nel nostro caso, e quell’uomo solo che la sera di quel giorno, con la sua giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, e un agente di scorta Domenico Russo, da immolare pure lui sull’altare pagano della solitudine e del grido sordo e cupo, percorre in abiti borghesi le vie di una città in guerra, mentre un nutrito commandos di assassini addestrati alle azioni militari e al terrorismo li massacra. Diversi kalashnikov e trecento pallottole per uccidere tre persone sole. In una città dove la morte si respira nell’aria, persino in quel caldo ancora estivo, in quella sera senza speranza, senza protezioni, senza legge. Da urlo.

la scorta Domenico Russo

Dalla Chiesa è a Palermo da cento giorni, ma lo Stato che l’ha mandato è sparito, nascosto dietro un masso. Se ne avverte l’assenza, la corresponsabilità. Come se quel vuoto legittimi il nemico sancendo una sua storica prerogativa, la sua organicità nel sistema. Una storia lunga. Una parola: legittimazione.

La esprime, meglio tra tutti, un padrino come Stefano Bontate, capo della mafia di Santa Maria di Gesù, protettore, nel ’79, del banchiere Michele Sindona durante la sua fuga in Sicilia, alleato di Salvatore Inzerillo e artefice del vecchio connubio mafia-politica. Come dicono Marino Mannoia e Angelo Siino, incontra più volte Andreotti e annovera tra i suoi parenti Margherita Bontate, dai trascorsi illustri per avere avuto come  capo elettore Paolino Bontate, padre di Stefano.

Il boss è liquidato dai corleonesi nel 1981 da Pino Greco Scarpuzzedda, che inaugura così la seconda guerra di mafia, chiudendo un periodo aprendone un altro.

Il passaggio avviene durante pochi anni. Segnano date importanti: l’uccisione di Peppino Impastato e Mario Francese (’78), Michele Reina, segretario provinciale Dc, Boris Giuliano e Cesare Terranova (‘79), Piersanti Mattarella e Gaetano Costa, procuratore della Repubblica di Palermo (‘80). Non c’è rottura rispetto al passato. Sono, come tradizione comanda, delitti politici con un garante, un comando, una base sociale obbediente.

Un mondo che ha pattuito, a vari livelli, la cessione del territorio in cambio di un controllo  necessario a mantenere gli equilibri sul piano nazionale e a rispettare molte sudditanze. Da quelle locali a quelle internazionali. C’è, ad esempio, una superstruttura segreta destinata a vigilare sulla linea di confine del comunismo e dell’atlantismo. Si chiama “Anello” o “Noto Servizio”. Ne è referente Giuliano Andreotti. Lo dichiara lo stesso Licio Gelli, il fondatore della P2, a un giornalista del settimanale Oggi. Il Gran Maestro ebbe a dichiarare: “Io avevo la P2, Cossiga Gladio, e Andreotti l’Anello”. Cioè la stessa organizzazione che, stando ad alcune testimonianze oggi in mano alla magistratura di Palermo, aveva provveduto a salvare la pelle al bandito Giuliano, nel 1950, dopo che questi aveva fatto la guerra contro l’avanzata delle sinistre e fatto sparire il famoso terzo memoriale dove stava scritto come erano andate veramente le cose a Portella della Ginestra.

Nei primi mesi del 1982 arrivano a maturazione alcuni conflitti che hanno come centro il Mediterraneo: le sanzioni economiche contro la Libia di Gheddafi da parte dell’America di Reagan, la lotta di La Torre contro la base missilistica di Comiso. Ma la continuità parte da lontano e prosegue da vicino con la vicenda Moro, con l’assassinio di Piersanti Mattarella e Pio La Torre, fino ad arrivare alla strage di via Carini.

Ma questa continuità è molto più complessa di uno schema. Non è automatica. Nel mezzo ci sono variabili che neanche gli stessi elementi, collocati in posizione utile lungo lo schema, riescono a decidere o a controllare, e di cui gli stessi sono subalterni.

Per cui se è vero che secondo Buscetta, Pecorelli fu ucciso nell’interesse di Andreotti, in riferimento alla vicenda Moro, è anche vero che Andreotti è un elemento di un ingranaggio, nel quale il vero Deus ex machina risiede altrove ed ha il potere protettivo di una forza indiscutibile. È quello che mi sembra di notare nella vicenda del generale Dalla Chiesa, che si verifica sotto il governo di Spadolini, ministro dell’interno Rognoni quando il presidente della Regione è Mario D’Acquisto e la Sicilia è normalizzata dopo Mattarella.

La domanda che ci poniamo è questa: quali interessi aveva la mafia ad uccidere un uomo come Dalla Chiesa?  Il governo non aveva concesso al generale i poteri che questi chiedeva, e l’ultimatum da lui imposto per decidere se desistere dal suo compito (fine settembre) non era ancora scaduto. Nei cento giorni di permanenza del generale in Sicilia possiamo dire che non era cambiato quasi nulla. Che motivo c’era dunque di ucciderlo?

Come nel caso Moro si avverte la causalità del compromesso storico e il rispetto degli accordi di Yalta, come fattori scatenanti del sequestro e poi dell’uccisione del presidente della Dc, allo stesso modo c’è in Dalla Chiesa, secondo quanto dice Buscetta, non un interesse diretto di Cosa Nostra, ma l’ordine di un’ “entità esterna”. Una motivazione  che si può configurare in questa ipotesi che prescinde dai protagonisti sulla scena.

Dopo l’uccisione di La Torre e la messa in discussione della centralità della Sicilia nel Mediterraneo, qualcuno teme che l’isola perda i suoi connotati strategici rispetto alla Nato e alla sua collocazione internazionale, e che molti soggetti siano privati delle prerogative che storicamente avevano avuto nella storia nazionale. La legittimazione mafiosa al potere e la sua saldatura organica con lo Stato era una di queste. Basti pensare che Charles Poletti, capo delle truppe di occupazione alleata, legittima un boss del calibro di Vito Genovese al suo fianco e che nel 1946 Lucky Luciano è liberato dalle carceri americane – dove doveva scontare ancora ben cinquant’anni di prigione – per essere inviato in Italia e investito dai boss siciliani come il loro capo. C’è, dunque, una coerenza storica che va da Portella a Moro per giungere, attraverso La Torre, fino ai nostri giorni.

Stando al generale Dalla Chiesa, la famiglia politica più inquinata dell’isola è la corrente andreottiana che si ramifica in un sistema ad albero le cui radici si estendono al 1947. Il suo asse è la mistificazione, il doppio gioco, la torsione della verità. Si veda, ad esempio, quello che scrive Andreotti nel suo diario sul 1947, a proposito della strage di Portella della Ginestra, quando, anziché accusarne i mandanti, lascia cadere dei sospetti sui deputati comunisti assenti dalla manifestazione. Come se i deputati comunisti avessero potuto essere contemporaneamente presenti in tutti i luoghi in cui si stava celebrando la festa del lavoro.

C’è una considerazione da fare e riguarda la speciale predilezione che Andreotti ha sempre avuto nel riferire gli affari di casa nostra ai Servizi americani. Un documento la abbiamo rintracciato e proviene dal Nara di Washington. È il 20 febbraio 1946, quando l’intelligence Usa invia allo Strategic Services Unit (Ssu), un telegramma segreto su cosa bolle in pentola all’interno del primo governo De Gasperi. Il testo così inizia: “Il 19 febbraio Andreotti ha informato JK-12 che De Gasperi ha rivelato nel corso di alcune conversazioni private…”. E giù informazioni su quello che faceva il capo del governo De Gasperi nella stanza accanto.

Data questa attitudine sarebbe molto interessante
sapere se le conversazioni che il console americano a Palermo Ralph Jones ebbe giusto la mattina di quel fatidico 3 settembre 1982 proprio con il generale, risultino da qualche parte tra gli atti della Cia o del Dipartimento di Stato di Washington e se per caso anche gli americani non erano del tutto indifferenti alla presenza di Dalla Chiesa in Sicilia. E cioè al fatto che la Sicilia potesse non avere più il controllo sociale e politico della mafia per il mantenimento degli equilibri nazionali. Cosa di cui è facile dubitare.

Un’ultima considerazione. Ci sono troppe cose che spariscono in questa nostra storia repubblicana: ne elenchiamo alcune: il memoriale di Giuliano, le dichiarazioni di Gaspare Pisciotta, suo luogotenente, sulla sua morte, la borsa che Pio La Torre portava con sé il giorno dell’agguato, il Memorandum che l’agente segreto Nino d’Agostino aveva scritto in occasione dell’attentato dell’Addaura a Falcone, l’agenda di Borsellino o ancora i documenti che dovevano essere nella cassaforte della prefettura di Palermo il giorno dell’uccisione di Dalla Chiesa.

Ecco. Certe volte i piccoli indizi possono aprire spazi di ricerca importanti a saperne un po’ di più.


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