Sebbene sia rinomato per la narrativa tutt’altro che accomodante, Kim Ki-duk ha preso sul serio l’allettante proposta della casa di produzione cinese JSNH Film. Dalla Cina infatti sono arrivati 30 milioni di dollari per mettere in scena la prossima opera del regista coreano, che passa così dal capolavoro d’essai premiato a Venezia, attraverso il film autoprodotto girato in Giappone, al blockbuster a contratto con la censura, prodotto dalla Cina.
La storia del regista ultimamente si è arricchita di disavventure in patria, non ultimo il grande fallimento dei titoli recenti, con i quali non ha per nulla fatto breccia nei cuori dei fan locali, quindi non stupisce la scelta di cercare nuove prospettive fuori dalla patria.
One on One, del marzo 2014, ha venduto in Corea del Sud soli 10.000 biglietti complessivamente, mettendo il regista di fronte a giri promozionali andati completamente a vuoto, con sale letteralmente deserte. E tutto questo quando ancora l’eco del successo di Pietà al Festival di Venezia, si faceva sentire. One on One è un film in linea con i temi cari all’ultimo Ki-duk: una società violenta e spietata, dove la vendetta sembra tessere una maglia inestricabile da cui è impossibile liberare la mente.
Dopo One on One, lasciatosi il thriller saturo di efferatezza alle spalle, Ki-duk ha tentato una strada completamente inusuale caricandosi dell’intera realizzazione del suo tentativo di riscatto, Stop. Assurdamente, si tratta di un film essenziale a livello produttivo e narrativo, dove il regista non si è avvalso dell’aiuto di nessuno oltre agli attori: la mattina si occupava della preparazione del set e il pomeriggio delle riprese, mentre il cast era responsabile di trucco, parrucco, costumi e pure dell’alloggio. Spesa complessiva: 10 mila dollari.
Insomma, è pressappoco quello che succede a tutti gli indipendenti in Italia, sebbene in questo caso si tratti di un regista che ha già all’attivo un Leone d’Oro, un Orso d’Argento più svariati altri premi tra Locarno, Cannes, Busan eccetera eccetera. Ci si aspetterebbe che la sua narrativa unica fosse riuscita anche in condizioni di ristrettezza ma molta critica ha giudicato il film “sciatto” e “amatoriale”. Personalmente lo definirei l’opera peggio riuscita, un monito per coloro che ancora giudicano il cinema un’arte emanata dalla sola figura del regista.
Detto questo, Stop racconta di una coppia che affronta il momento della nascita di un figlio nel mezzo del disastro di Fukushima, anche qui con i suoi tratti di eccesso. Il regista si è detto “sfinito” dalla lavorazione in solitaria, esprimendo il desiderio di doversi unicamente “sedere sulla sedia e guardare il monitor” per il film seguente.
Detto fatto. Non ci stupisce la manovra (furba, disperata, commerciale, lungimirante, contradditoria, mettete voi l’aggettivo che ritenete più opportuno) con la quale Kim Ki-duk lascia la Corea del Sud, criticandone apertamente il sistema e lamentando la limitatezza operativa, per finire nelle braccia di una delle più ricche sebbene censurate industrie cinematografiche del mondo.
Ki-duk sostiene che in Corea soltanto coloro che hanno alle spalle un grosso investimento, una grossa distribuzione e degli attori famosi possono conquistare il box office. E che il suo lavoro si è ormai allontanato dalla combinazione di questi fattori; probabilmente la sua narrativa densa, a tratti difficile da sostenere, ha reso sempre più scettici gli investitori o il pubblico locale. Tuttavia, come non ricordare il caso di Park Chan-woo, che con una spietatezza pari se non superiore, è tra gli idoli dei coreani.
Ora, Kim Ki-duk giustifica la sua scelta anche affermando che è finito, almeno per ora, il suo tempo tra i coreani: le storie (e le torture) di cui voleva parlare a proposito di questa società, sono esaurite; quello di cui va in cerca ora è qualcosa di più assoluto che possa interessare l’umanità.
E qui arriva la Cina, e una sceneggiatura su cui è al lavoro da quasi dieci anni. Who is God sarà una pellicola con troupe e attori cinesi, girata in lingua cinese, a raccontare delle guerre di religione scatenatesi durante il periodo di diffusione del Buddismo in Asia. Ecco quindi che per questo film epico-bellico il budget supera di tre volte tutto quel che è stato speso per l’insieme dei film della sua carriera; inoltre, poiché in Cina al contrario della Corea non servono i nomi noti per far breccia nel cuore dei fan, il cast già annovera due tra le più pagate di tutto il Paese, Zhang Ziyi e Gong Li. Giusto per stare sul sicuro che il nome del regista coreano, timidamente conosciuto in Cina, possa poi avere la sua giusta risonanza una volta che il film sarà realtà.
Pare ci sia coscienza del fatto che prima di tutto ci sarà da fronteggiare il Grande Gigante Censore in un Paese dove le riflessioni su, in ordine: violenza, sesso, religione (e affini), sono ufficialmente proibite. Kim Soon-mo, produttore della Kim Ki-duk Films, dice di essere “consapevole della possibilità che la sceneggiatura possa venire alterata” ma che (ovviamente) sono pronti a lavorare con/per la Censura. Tuttavia, guardando con occhio attento la produzione del coreano, si stenta ad individuare temi la cui esistenza si possa chiamare indipendente dai tre di cui sopra. Quanto meno due di questi.
Dal punto di vista di chi questa Cina la sta vivendo in un momento di enormi cambiamenti, l’accaduto assomiglia piuttosto ad un giovane scapolo che va corteggiando l’anziana ereditiera. Questa impone regole ferree a cui è necessario sottostare pur di accedere all’enorme patrimonio. Il fatto è che il regista di cui stiamo parlando è un personaggio dalle nette estremizzazioni, di cui si è fatto forte nella sua ascesa al successo; al contrario invece, incontrare la Cina, si riduce più che altro ad un lavoraccio di compromessi.
Personalmente, il pensiero di poter assistere ad un Kim Ki-duk commerciale e imbonito dal mercato cinese, mi lacera. Non è detta l’ultima parola: magari le ristrettezze espressive lo porteranno ad elaborare un altro capolavoro narrativo come i primi film, da Ferro 3 a L’arco, dove la violenza sublimava in apologie del terrore senza (troppo) sangue. Oppure, appunto, assisteremo al diniego della sua opera in favore del budget… che in tutta onestà 30 milioni farebbero gola a qualunque regista, soprattutto al seguito di certi fiaschi colossali che necessitano assolutamente un riavvio del sistema.
Rita Andreetti