Il primo marzo di questo anno, la diciassettesima sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha passato una risoluzione in cui si condanna la situazione dei diritti umani in Siria e si imputa al Governo siriano tutta la responsabilità per i sanguinosi scontri all’interno del paese. L’apparato governativo che fa capo al presidente Assad sembra essere l’unico imputato per l’ondata di violenze che sta attraversando il paese da mesi, e in seno alle istituzioni internazionali prosegue il gioco delle accuse portate avanti dal “blocco” occidentale secondo l’ormai nota retorica dei Diritti Umani.
Da un articolo pubblicato lo scorso mese sul Renmin Ribao, il principale quotidiano cinese, emerge con chiarezza l’opinione della Cina a riguardo: per Pechino, «dopo che i paesi interessati hanno tentato di promuovere presso il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale dell’ONU denunce dirette al solo Governo siriano, prendendo a pretesto ancora una volta la causa della tutela dei diritti umani sul palcoscenico delle Nazioni Unite, si sta preparando il terreno per intervenire militarmente nella crisi siriana». Infatti, nonostante lo zelo col quale le parti interessate si sono date da fare per ottenere risoluzioni internazionali, «I sanguinosi scontri in Siria si sono aggravati e sono aumentati i morti e i feriti tra il personale».
Dal canto suo la Cina, sul palcoscenico internazionale, ha espresso la ferma opposizione a qualsiasi risoluzione che possa portare ad un intervento armato in Siria. Per trovare una soluzione alla crisi siriana, Pechino sostiene la necessità che i paesi coinvolti si adoperino in maniera appropriata ed efficace per raggiungere una tregua tra le forze in campo e realizzare in seguito un’effettiva riconciliazione politica tra le parti. «Se si fa pressione sul Governo in maniera unilaterale mentre si sostiene militarmente la controparte, questo – per Pechino – non è altro che soffiare sul fuoco».
Quella siriana non è però l’ultima né l’unica occasione in cui lo stendardo dei diritti umani viene innalzato per fare pressione politica. In questo periodo un’altra «questione di Diritti Umani» si sta infatti facendo rovente, e questa coinvolge direttamente Pechino. «Dopo che la Corea del Sud ha tirato fuori la questione dei cosiddetti ‘talbukja’1 anche i parlamentari di alcuni paesi europei stanno facendo eco alle parole di Seul, e il Congresso USA sta preparando un’udizione dei ‘profughi nordcoreani rimpatriati dalla Cina’».
Per le autorità cinesi appare evidente come la questione dei «talbukja» sia più che altro un pretesto per fare pressione mediatica sul loro paese. «Si definisce profugo una persona che ha paura di essere perseguitata per ragioni della propria appartenenza etnica, credo religioso, nazionalità, per essere membro di un particolare gruppo sociale o per la professione di una qualche visione politica e che, trovandosi fuori da paese d’origine, non vuole o non può tornare in patria, come anche perché gode dello status di rifugiato in qualche paese». Pechino sostiene, invece, che i «talbukja» abbiano lasciato il loro paese più che altro per fini economici, abbandonando una Corea economicamente depressa per cercare fortuna altrove: secondo il diritto internazionale, quindi, non si tratterebbe di profughi, ma di emigranti per ragioni economiche entrati illegalmente in territorio cinese. Con questa premessa, il paese asiatico difende il suo operato, sostenendo quindi che il rimpatrio di questi immigrati illegali si sia svolto in modo «appropriato secondo la legge nazionale, il diritto internazionale e i principi dell’umanitarismo». Di conseguenza, la Cina non dovrebbe essere accusata di nulla.
Le motivazioni che spingerebbero Seul ad affrontare con tanto zelo la questione dei «talbukja» appare chiaro ai cinesi: «Attualmente, la situazione nella penisola si trova in uno stato di aperto confronto. La Corea del Nord ha dichiarato in modo chiaro di non comunicare con il Sud, nello specifico con il governo di Lee Myung-bak, allo scopo di risolvere i problemi della penisola. Di fronte ai i colloqui diretti tra Washington e Pyongyang ci sono le pressioni e il senso di abbandono di Seul, che si preoccupa di non essere emarginata ulteriormente per quanto riguarda la questione del nucleare nord coreano». Alla luce di tutto ciò non dovrebbe essere difficile capire perché la questione degli esuli da un giorno all’altro stia così a cuore al governo di Lee Myung-bak.
La risoluzione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sul problema siriano e la questione dei «talbukja» hanno agli occhi dei cinesi una caratteristica in comune. Ovvero il fatto che alcuni paesi, dimostrando con fare volutamente ampolloso di occupare un’elevata posizione all’interno del sistema morale, prendono in prestito questioni umanitarie per esercitare pressioni politiche su altri paesi. La Cina sostiene invece con fermezza che si tratta di una strada impraticabile, perché in ogni caso «i diritti umani non sono un ‘jolly’ per portare avanti obiettivi politici».
E su questo, Pechino sembra intenzionata a non transigere: «In quanto importante sede della cooperazione internazionale sul terreno dei diritti umani, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dovrebbe considerare con criterio il suo mandato ed operare secondo i criteri fondamentali del diritto internazionale, rispettando scrupolosamente la Carta delle Nazioni Unite».