Marco Magini, Come fossi solo (Giunti, 2014, € 14,00, pp. 224). Sono passati più di due anni da quando Marco Magini mi mandò un capitolo del libro che stava scrivendo. Avevo conosciuto i suoi genitori in un agriturismo toscano in cui cercavo aria buona per mia figlia convalescente, uno di quei posti in cui trovi gente appassionata, cucina indimenticabile, profumo di famiglia vera e bellezza. Solo poche pagine, Marco – virtù rara – mostrava di conoscere il valore del tempo altrui. Le lessi con timore, come sempre in questi casi: non so mentire, e di rado capita di leggere cose veramente buone. Ma quello era il caso. C’era da passare un po’ di lima ma valeva la pena di continuare a scrivere. La storia (vera) di Dražen Erdemović doveva essere raccontata. L’unico tra gli assassini della strage Srebrenica a essere stato condannato perché reo confesso: ma reo di che cosa, esattamente?
Come fossi solo – un titolo bellissimo su cui si riflette solo alla fine della lettura – ricostruisce la vicenda di Dražen, ventenne serbo-croato che, visti vanificarsi tutti i tentativi di scappare dal suo paese, si arruola nell’esercito serbo per mantenere la moglie e la figlia di pochi mesi; si illude di poter combattere una guerra senza uccidere e si ritrova a Srebrenica il 14 luglio 1995.
Le tre voci del romanzo, quella di Dražen, quella di Dirk, un casco blu olandese, e quella dello spagnolo Romeo González, giudice della corte internazionale che emetterà la sentenza, sono le tre facce del dramma di un conflitto moderno e del suo epilogo in un tribunale internazionale. È il giudice a introdurre la riflessione attorno a cui ruota il romanzo: «Possiamo con la nostra sentenza implicitamente pretendere che l’imputato avrebbe dovuto comportarsi come un eroe?». A Srebrenica, dice Magini, l’unico modo per restare innocenti era morire. Paradosso di questa e di ogni guerra.
Come fossi solo (che ha ricevuto la menzione della giuria al Premio Calvino 2013) si legge con lo stomaco stretto. Dipinge il conflitto con pennellate impressioniste, pochi tratti per renderne i macabri rituali, nessun indugio, nessun voyeurismo bellico. Ma fa male comunque, e gliene siamo grati. Grati per averci riportati a quella guerra troppo vicina perché le nostre coscienze resistessero all’istinto di tenersela lontana (ci vollero 4 anni prima dell’intervento della Nato). Gli 8.000 morti di Srebrenica e i quasi 94.000 dell’intero conflitto meritano lo sforzo, soprattutto emotivo, di raccogliere la riflessione del romanzo sul senso della “giustizia di guerra”.
P.S. In libreria dal 17 gennaio 2014
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Scritto da: Francesca Magni
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