Il “buco” del Lido
Anna Lombroso per il Simplicissimus
Si lo so sono una snob. Ma che a Venezia due incarichi autorevoli e prestigiosi del Municipio siano ricoperti non da un Nane, da un Alvise, da un Marco, da uno Jacopo, bensì da un Morris e da un Derek mi pare un segnale inquietante, da imputare forse alla spettacolarizzazione delle nostre esistenze, che sconfina ormai dalla soap all’horror, dopo tante Samantha, Deborah, Sue Ellen.
Eh si, perché si chiamano Morris Ceron il nuovo capo di gabinetto del sindaco e Derek Donadini il suo vice, individuati e assunti in base a vincolo fiduciario a ricoprire i delicati incarichi. E infatti di chi dovrebbe mai fidarsi il sindaco imprenditore se non di persone conosciute e di professionalità collaudate? Chi meglio potrebbe essere depositario di quella relazione speciale basata sull’affidabilità, sulla fedeltà, sulla confidenza frutto di una lunga frequentazione – meglio ancora della fidanzata di Emiliano, meglio dei compagni di merende alle Cascine dei Renzi alla Provincia – di due ex dipendenti della sua azienda?
La qualità speciale delle loro investitura è stata anche confermata da un trattamento economico altrettanto speciale: a fronte del carattere provvisorio dell’incarico legato alla durata in carica del sindaco, ai due nuovi assunti è stato riconosciuto oltre al trattamento economico di base anche quello accessorio, azzerato dal mese di luglio per tutti gli altri dipendenti del comune.
Il favoritismo, una delle variabili del clientelismo e del familismo amorale, non è cosa nuova. Da tempo è diventato fenomeno bipartisan e condiviso entusiasticamente dagli eredi ingrati e irriconoscenti del partito che in nome di valori di onestà e trasparenza, oggi dileggiati come arcaici cascami del passato in cambio di ambizione, arrivismo, autoritarismo, voleva segnare la sua diversità. E non potevamo aspettarci nulla di diverso da un esercizio della politica che ha cancellato la partecipazione e il riconoscimento di principi e ideali comuni per promuovere fidelizzazione e appartenenza, che aspira a coagulare il consenso unicamente intorno a una leadership personale, indifferente a progetti, programmi, idee, che crea e ricrea cerchie e cricche il cui collante è rappresentato da avidità di potere, da bramosia di affermazione individuale, da cupidigia di privilegi e rendite di posizione inalienabili.
Per anni tanti come me hanno voluto smentire lo stereotipo tacciato di qualunquismo, secondo il quale “sono tutti uguali”. Invece è proprio vero: “sono tutti uguali”, a macabra conferma che pare non esista via virtuosa al potere. In gerarchie di scala che si replicano giù giù per li rami ogni imperatore, ogni reuccio, ogni generale e ogni caporale vuole avere accanto i suoi fidi, i suoi attendenti, i suoi capi di gabinetto, i suoi addetti stampa, scelti per familiarità, per condivisione di antiche marachelle, per provata affiliazione, per consolidato assoggettamento. Da usare per coprire vizietti, per scaricare responsabilità grazie alla comprovata indole a espiare al posto del padrone, per farne i depositari di segreti e ambizioni, per mandarli a fare i lavori sporchi o a pronunciare dichiarazioni spericolate, salvo poi smentirli, tradirli, svergognarli. Che tanto di sa che poi la fedeltà prima o poi viene premiata: un consiglio di amministrazione, una presidenza, una direzione sono sempre pronti per accontentare, tacitare, blandire, rimborsare per i servigi resi.
Forse la novità, è costituita dalla sfrontatezza, dalla consapevolezza ostentata e sfrenata che chi sta in alto gode di impunità e immunità che caratterizzano questo ceto dirigente, ormai largamente dispensato dal timore che scadenze elettorali si trasformino in purghe, che la cattiva reputazione condanni all’emarginazione. Ha scoperto che si può mentire, ingannare, rubare, compiere misfatti e crimini senza paura della punizione: basta un camouflage a coprire la corruzione, le inadempienze, l’inettitudine, come all’Expo, come al Lido di Venezia, dove il sindaco ha promosso quello che è stato definito un necessario maquillage prima dell’inizio della Mostra del Cinema, coprendo l’osceno buco davanti al Palacinema, in modo da “restituire decoro” all’area prima dell’arrivo di stampa e di ospiti internazionali. Come se a preoccupare potesse essere il disdoro sulla voragine, sulla bruttezza dei sacchi impilati e fradici di pioggia, sul’insalubrità delle zanzare e delle pantegane, e non l’operazione speculativa di un nuovo Palazzo del Cinema da 28 milioni di euro, promossa da un Comune intorno al cui collo è stretto di nodo scorsoio del fallimento, opaca e futile come tutte le ambizioni visionarie che hanno dato origine a faraoniche quanto dannose grandi opere per grandi eventi, finalizzate unicamente a grandi scempi e altrettanto grandi malaffari.