dalle cronache: Il Paese dei matti

Da Pamirilla

Il 7 agosto del 1937 il gatto che Rosina chiamava Saetta, quello tutto colorato, salì sul gelso del piccolo orto adiacente la casa e non sapendo come scendere cominciò a miagolare. Andò avanti per ore e quando arrivò la notte se ne restò appollaiato sul ramo aspettando l’alba. Quando il sole emerse di nuovo dal folto del bosco Saetta, infreddolito e stanco, ricominciò a gnaulare con mite e disperata infelicità.
Dopo aver fatto colazione con i cetrioli dell’orto, una fetta di pecorino ed un pezzo di pane Gello, il marito di Rosina, ormai innervosito marcio sia perché il gatto non la piantava con quel suo lamento insulso sia perché in casa erano tutti a lamentarsi che nessuno facesse niente per quello stupido animale, afferrò la scala e salì sul gelso. Gello era coraggioso, certo più del gatto, ma il coraggio non sempre basta da solo, essere nervosi ed irritati invece, nella maggioranza dei casi, nuoce. Se poi si è afferrato nella furia la scala sbagliata, quella rotta, allora non ci sono santi.
L’8 agosto del 1937 è il giorno in cui Gello, cadendo dalla scala e battendo la testa su una grossa pietra coperta di muschio e nascosta tra le margherite, morì, lasciando soli Rosina, tre figli maschi non ancora maggiorenni, il cane, il gatto (che infine scese dall’albero da solo) ed un asinello.

In campagna i gatti non sono di nessuno, vanno dove gli pare e quando hanno fame si affacciano alla porta di chiunque, perciò non si può dire che Saetta fosse proprio il gatto di Rosina però lei gli si era affezionata per qualche ragione e gli aveva dato un nome. Nonostante una parte di responsabilità del gatto circa il triste lutto, Rosina non volle rinunciare alle compagnia allegra di Saetta né alle sue fusa appassionate: la colpa della morte del marito la attribuì dunque al gelso. Il gatto continuò a prendere il sole nel piccolo orto di Rosina, non smise di cacciare lucertole come aveva sempre fatto, lasciandone qualcuna in dono sulla finestra della camera da letto, e non gli mancarono mai cibo e coccole.
Il gelso fu tagliato e ne fu fatta legna per il camino.
Della scala, invece, non si sa.

Il paese dove si svolsero questi fatti si chiamava Boschereto Valsotto della Pieve e per motivi rimasti sempre misteriosi si ritrovava un nome più lungo della fila di case che lo componeva . Tempo dopo il nome fu semplificato in un più conciso e ragionevole Boschereto.
Di abitanti se ne contavano poche decine ed erano tutti un po’ tocchi, anzi parecchio.
L’ipotesi a tutt’oggi più accreditata è che la stramberia dei paesani fosse da attribuirsi ad un avvelenamento causato dalle acque inquinate che sgorgavano dalla fontana della piazza, cui tutti attingevano.
Intorno agli anni ’70 il paese fece delle leggendarie follie del passato motivo di attrazione turistica e fu posta una lapide sulla fonte per ricordare che era stata la probabile causa di un fenomeno strano e mai del tutto chiarito ma assai curioso. Il semplice cannello della fontana venne incastonato in una testa di drago forgiata da un mastro fabbro della valle molto noto per le sue splendide teste di drago dagli gli occhi strabici che sembravano un po’ matti pure loro.

Circa le storie, vere o presunte, delle gesta degli abitanti di quel minuscolo paese nascosto nel bosco si diceva, ad esempio, che una volta fu proibito a tutti di mangiare patate perché un tal Cecco, il falegname, era certo di aver visto uno gnomo rubare le patate dagli orti e sostituirle con tuberi dai poteri magici che li avrebbero trasformati tutti in gnomi a loro volta. Un’altra storia narra di un certo Memo, il vasaio, che guidò una spedizione contro i paglioni di fieno accusati di spostarsi la notte senza il permesso di nessuno e confondersi nei campi dell’uno e  dell’altro contadino portando il massimo scompiglio. Era stato Gello invece a recarsi nella vicina città di Terrenove per cercare un avvocato che accettasse la cesta con salumi, formaggi, pani, due polli e venti uova raccolti in paese come acconto per sostenere la causa comune contro il sole. Secondo i paesani il sole si muoveva in senso opposto a quello che meglio avrebbe facilitato il loro lavoro nei campi ed agevolato il rientro nella case all’ora di rientrarvi, quando invece gli si piantava negli occhi accecandoli. Pertanto avevano deciso di intentare una causa al sole perché cambiasse il suo corso e trovarono un avvocato secondo il quale c’erano senz’altro ottime possibilità di vittoria ed accettò il caso. L’avvocato fu così generoso da accettare in pagamento i beni che i paesani potevano produrre al posto dei soldi che non avevano e per un anno intero ogni due settimane partiva da Boschereto una cesta piena di ogni ben di Dio diretta alla casa dell’onesto avvocato di città.

Quando arrivò la lettera con la sentenza Antonì, il fornaio, la diede alla figlia e la mandò da Gello perché era l’unico che sapeva leggere. Fioretta corse svelta, nonostante i piedi scalzi, ma quando si affacciò nella casa di Gello si fermò di botto, impietrita dalla sorpresa.
Sua sorella era lì e questo le sembrava già strano ma ancor più strano era che fosse inginocchiata davanti a Gello il quale le teneva la testa davanti al suo bacino stringendole i capelli tra le dita della mano grande e callosa. Quello che la spaventò era l’aspetto di Gello. Non sembrava neanche più lui: gli occhi semichiusi e la bocca appena aperta, l’espressione persa come non fosse in piena coscienza, il respiro affannato e quello strano rantolio che le sembrò terribilmente inquietante. Fioretta si nascose dietro la porta spingendosi forte contro il muro e stringendo sul petto la lettera che aveva con sé.
Rimase lì dietro turbata ed impaurita finché non sentì Gello emettere un rantolo più forte degli altri nonché definitivo. Poi udì la sua voce tornata normale cacciare la sorella con la ruvidezza consueta ai  suoi modi da montanaro. Si affacciò cauta e gli sembrò di vedere il Gello che aveva sempre conosciuto, lui si rincalzava la camicia nei pantaloni e richiudeva la patta. Fioretta aspettò che il respiro le tornasse normale poi, fingendo di essere appena arrivata, entrò in casa e diede a Gello la lettera. Lui le allungò una carezza che le fece venire un brivido anche se era un gesto che aveva sempre fatto e mai le aveva fatto ribrezzo prima.

La causa era stata vinta e l’avvocato richiedeva il pagamento a chiusura delle sue prestazioni: una lista infinita di polli, galline, salami e caciotte che nessuno si sognò di contestare.
Dal giorno dopo cominciarono le piogge autunnali e (probabilmente una rappresaglia da parte del sole) sembrava non dovessero finire mai più. Prima che i raccolti fossero compromessi del tutto e i contadini rovinati gli abitanti di Boschereto furono costretti a permettere che tutto tornasse come prima e ad inviare tre casse di vino all’avvocato perché redimesse la faccenda.
Il mattino in cui Angelino doveva accompagnare Gello in città per consegnare il vino all’avvocato successe qualcosa di strano che lo lasciò piuttosto perplesso.
Gello non era in casa, il figlio dodicenne, Mariuccio, si offrì di accompagnarlo alla legnaia pensando che l’avrebbero trovato lì. Mentre giravano intorno alla casa, però, udirono provenire da uno stanzino che fungeva da ripostiglio degli strani rumori. Qualcosa batteva ritmicamente contro il muro producendo un rumore sordo e pareva di sentire gemiti e lamenti. “Gli gnomi!” esclamò Mariuccio ed Angelino gli tappò prontamente la bocca perché, gridando, non li facesse scoprire.
Si accovacciarono tra le felci ed aspettarono che i rumori cessassero. Poco dopo ad Angelino parve di vedere sua moglie che sgaiattolava fuori dalla casa di Gello ma non poteva essere lei perché aveva i capelli scarmigliati e le vesti scomposte e comunque la donna scappò via troppo velocemente per essere riconosciuta. Gello se lo ritrovarono invece alle spalle, fischiettava e li guardava ridacchiando mentre si aggiustava i pantaloni.
“Eeeh…..” biascicò Angelino arrossendo e sentendosi ridicolo accovacciato in quella posizione.
“Andiamo, chè la strada è lunga e si fa buio presto” disse brusco Gello e gli voltò le spalle avviandosi verso il carretto dove aveva già caricato le casse di vino e legato il cavallo.

Con le vinacce di scarto del vin santo si usava fare un vino leggero e molto aromatico con il quale le donne del paese facevano le ciambelline d’autunno.
A Rosina piaceva impastare quella massa profumata ed aggiungeva all’impasto un segreto che diceva esserle stato suggerito da una fata incontrata nel bosco una volta che era andata a raccogliere erbe.
Quando si metteva a fare questi dolcetti rimaneva in cucina fino a tardi, impastava e formava le ciambelline muovendo le mani veloce sulla spianatoia. Le schiacciava nello zucchero e le infornava. Tutta la casa si riempiva di profumo.
Quel giorno Rosina si sentiva inquieta e quando si accorse che non aveva olio a sufficienza per fare altro impasto le sembrò che quel piccolo intoppo fosse di cattivo auspicio.
Si pulì le mani ed uscì nel piccolo giardino, mentre camminava lungo il muro guardò il sole che tramontava lontano, nella valle. La porta della cantina dove era conservata parte della dispensa era solo socchiusa. Chi l’aveva dimenticata aperta, si chiese Rosina infastidita. Ma come scese i pochi gradini e la vista della cantina fu completa si accorse che non era deserta.
Infatti il diavolo stava facendo un festino. Una candela illuminava il tavolo sporco dei resti di formaggio, pane e una profusione di vino. L’animale immondo rideva e baciava i seni nudi di una donna mentre un’altra altrettanto discinta sedeva a cavalcioni su di lui e si dondolava come animata da una furia perversa.
La scena di terribile depravazione spaventò Rosina e la lasciò turbata e scossa al punto che per diversi giorni non riuscì a parlare. Finché un giorno le scoppiò in petto un pianto dirotto e con le lacrime si sciolse nell’acqua e nel sale tutto il suo dolore. L’acqua innaffiò la rabbia, il sale esaltò il disgusto che le strozzava la gola. Saetta la consolava ronfando stretto conto il suo petto e lei gli raccontò tutto.

Il giorno seguente il gatto le lasciò sulla finestra della camera da letto una lucertola grande e bellissima poi salì sul gelso.

Mariuccio segò, per gioco e per vedere l’effetto che fa, la vecchia scala di legno, quella che usava sempre Gello per cogliere la frutta sugli alberi.

Angelino aveva trovato nel bosco una grossa pietra dalla forma insolita e la superficie ricoperta di muschio. Gli parve bella e pensò di portarla a Rosina sapendo che le sarebbe piaciuta. La adagiò sotto il gelso, tra le margherite.

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Nota

Esiste davvero un paese dei matti, si chiama Gello Biscardo. Sulla fonte della piazza è scritto che l’acqua avvelenata sembra essere stata la causa della pazzia degli abitanti. Tra le gesta folli dei paesani si racconta di una volta in cui fecero causa al sole. Su una delle case di pietra al limite del paese una lapide ricorda un tale morto in seguito alla caduta da un albero e mi spiace ma non ricordo il suo nome ma certamente era un brav’uomo. Questi pochi fatti hanno evidentemente prodotto un piccolo corto circuito nelle mie già provate sinapsi e sono stati rimescolati insieme ad un groviglio di episodi totalmente inventati.

Spero il racconto vi abbia divertito e che sarete indulgenti nel giudicare le mie velleità di narratrice dalla penna ancora imprecisa.


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