dalle donne al western (intervista a Fabrizio Cattani)
Creato il 04 giugno 2012 da Omar
Finalista ai Golden Globe con il corto L’abito e assistente di Özpetek in Cuore sacro, Fabrizio Cattani esordisce nel 2005 con Il rabdomante, lungometraggio premiato in numerosi festival europei.
Il suo progetto più recente è il fortunato Maternity Blues, tratto dal testo teatrale «From Medea» di Grazia Verasani e presentato alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Controcampo. Protagoniste sono quattro donne unite da una colpa comune: l‘infanticidio. L’intero film è ambientato nell’ospedale psichiatrico dove le mamme si trovano per aver ucciso la propria prole, confrontandosi con un senso di colpa che le annichilisce.
Maneggiando con acume e delicatezza una materia così spinosa, il regista ha messo pressoché unanimemente d’accordo critica e pubblico dimostrando qualità eccelse nel sondare la psiche femminile nonché un grande rigore formale nel rappresentare una storia che fa del dolore la sua essenza più vera.
Da qualche tempo Cattani sta lavorando all’allestimento della trasposizione filmica del primo romanzo di chi scrive: Uomini e cani, le cui riprese si svolgeranno nei prossimi mesi nelle campagne tarantine.
• Con il tuo ultimo film hai affrontato un argomento, quello dell'infanticidio, assai ispido e poco frequentato dal nostro cinema. Credo si possa affermare senza tema di smentita che la pellicola sta contribuendo alla formulazione di un nuovo dibattito attorno al problema, ma come mai un amante di Sergio Leone e degli spazi aperti ha avuto l'esigenza - dopo un film solare e di ampio respiro come Il Rabdomante - di immergersi nel cupo dolore di una storia come quella raccontata in Maternity Blues?
Per il semplice fatto che amo «spaziare» anche negli stili, nelle storie e nei generi. Qualcuno lo chiama coraggio. Certo è che un film sull’infanticidio non era stato mai realizzato e questo per me è stato un ulteriore motivo di interesse. Ma ciò che maggiormente mi ha spinto a volerlo realizzare, a parte il bel testo di Grazia Verasani, è stata la constatazione che spesso i talk show televisivi e i giornali si limitano alla spettacolarizzazione e al giudizio gratuito verso chi commette un reato di questo tipo, senza sviscerarne i motivi, le cause, il vissuto di chi ha visto la follia prevalere su tutto, e non solo per colpa propria.
• Sei tornato a lavorare con Andrea Osvart offrendole un ruolo intenso e problematico. Una parte, quella della mamma assassina, in cui l'attrice ungherese ha dato il suo meglio dimostrando, una volta di più, che il suo talento non risiede solo in una bellezza oggettivamente mozzafiato [mentre scriviamo l'attrice ha conseguito per la parte il prestigioso Premio Biraghi a Taormina]. Come ti sei trovato con lei e con tutto il resto del cast, quasi interamente composto da donne?
Di Andrea conoscevo le potenzialità e devo dire che in questo film si è superata, è stata grandiosa. Monica Birladeanu la conoscevo per il film Francesca che mi colpì tantissimo. Ha una forza nel volto, una capacità di «spaccare» lo schermo, che poche attrici hanno, oltreché una naturalezza e una bravura notevoli. Chiara Martegiani l’ho scelta dopo una lunga serie di provini ad una settantina di attrici, era perfetta per il ruolo di Rina ed è talmente brava che sono sicuro sia candidata ad essere una delle nostre migliori attrici italiane del futuro. Marina Pennafina la conoscevo per il teatro. Era perfetta fisicamente per il ruolo di Vincenza e a livello interpretativo ha una capacità di entrare nel personaggio come poche. Per loro è stato molto doloroso intraprendere questo percorso, nessuna di loro è madre; ho chiesto di avvicinarsi a quel dolore che le vere madri infanticide vivono, cercando di andare a ripescare nel loro percorso di vita, il momento più doloroso che avessero vissuto, anche se non avrebbe mai poturo essere così forte. Si sono avvicinate ai personaggi con molta passione e lavorandoci molto, sia con me che con dei coach e guardando interviste delle vere madri assassine. Penso che sia stata una grande sfida, difficilmente potrà ricapitargli di affrontare personaggi così forti.
• Il grande pubblico, soprattutto quello italiano, ha spesso una idea edulcorata del mondo del cinema, finendo per scambiare per realtà la luccicante patina di glamour mostrata dai media. Hai voglia di parlarci invece del reale impegno e della fatica che concerne la realizzazione di un film? So che hai avuto non pochi problemi a portare in sala questo ultimo lavoro...
Inizialmente ho combattuto contro lo scetticismo di molte Produzioni nei confronti di un tema considerato tabù nella nostra società e più protese verso un «cinema da botteghino». La maggior parte di loro pensa solo a fare cassa a discapito di un cinema più autoriale. Ma il dramma vero non è tanto la Produzione quanto la Distribuzione. I poveri esercenti sono in balia di agenti territoriali che impongono loro i film che vogliono, non a caso quelli commerciali, possibilmente americani o comunque blockbusters. I film indipendenti non hanno spazio, non hanno possibilità. Spero possa cambiare questo sistema che ormai ha reso il cinema italiano ai livelli della cinematografia del Burundi. Maternity Blues l’ho realizzato con la formula The Coproducers: tutti coloro che vi hanno lavorato, attori, tecnici e finanziatori, hanno acquisito una quota di sfruttamento economico, non denaro, questo ci ha permesso di abbattere di tre quarti il budget del film.
• Veniamo a noi: vorrei che spiegassi ai nostri lettori - sperando di non incappare in qualche forma di autocelebrazione - cosa ti ha attratto del mio romanzo Uomini e cani e quale aspetto intendi privilegiare nella resa sullo schermo. A tal proposito mi piacerebbe anche ci rivelassi che impressione ti ha fatto la Puglia nel tuo primo sopralluogo tecnico, compiuto tempo fa assieme a Elisabetta Olmi della Ipotesi Cinema?
Mi sono subito innamorato del libro, trovandolo molto vicino a ciò che avrei voluto da sempre realizzare cinematograficamente, una sorta di western moderno, con lo stile del grande Leone. Sorridevo mentre lo leggevo e non solo perché il libro ti ruba anche i sorrisi ma perché non potevo credere di aver trovato una storia che rispecchiava ciò che desideravo fare nella regia. Ed è pieno di emozioni e passioni, di amore per la propria terra, per una donna, per la difesa dei propri diritti, per la denuncia nei confronti di chi preferisce tutelare gli interessi che la storia di un paese e dei suoi abitanti. Conoscevo già la Puglia, è una delle regioni che amo di più. Conoscevo poco la zona di Manduria e sono rimasto affascinato dal territorio brullo e al contempo magico, penso alla zona della Salina o alle dune, con quel quel mare meraviglioso che vorrei omaggiare attraverso il film, assieme ai meravigliosi volti contadini, pieni di rughe, che soltanto chi sta a contatto con una terra come la vostra, baciata da un sole incredibile, possiede.
• Sempre in quella prima visita hai avuto modo di provare la nostra cucina e il nostro vino. Vieni da una terra, la Toscana, con una grande tradizione vitivinicola: cosa te ne è sembrato del nostro Primitivo di Manduria?
Bella gara. È vero, sono toscano, con una grande tradizione dietro, e sono pure un grande amante del vino buono. Quello pugliese è sicuramente tra i miei preferiti. Tra i rossi lo è in assoluto. Questo è il vero motivo della mia scelta di fare Uomini e cani. A parte gli scherzi, il libro è fantastico!
[intervista a cura di Omar Di Monopoli per la rivista di eno-gastronomia pugliese Alceo Salentino - (foto dal carpet veneziano reperita in rete)]
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