Oggi mi è capitato di rileggere una vecchia edizione dello Zibaldone.
Tra me e Leopardi c'è come un legame ancestrale, ne avevo scritto i motivi nel mio "ritorno dall'infinito", un diario di immagini e pensieri su di un viaggio fatto al mio paese natale, nelle Marche, con la bimba e il mio babbo nell'agosto del 2006. Diario con quale partecipai al Premio Pieve, ma con meno fortune di "trenAretino".
(...)
Nell’età dell’apprendimento, quella della sete e fame di sapere che ho vissuto da piccolo, la scoperta della poesia è stata come l’ingresso in una incomprensibile dimensione, dominata da una forte sensazione di indefinito.
Con la poesia avevo scoperto l’esistenza di un mondo parallelo a quello che vivevo, alla realtà. La poesia mi aveva aperto una porta che portava nell’universo che stava dentro di me. Non solo avevo scoperto la poesia, non solo avevo aperto quella porta, ma avevo anche scoperto Giacomo Leopardi, e lui mi ha accompagnato in un luogo infinito dentro di me.
Mi ricordo di aver imparato a memoria tante delle sue poesie, ma una tra tutte la sentivo mia. Parlava di me, parlava con me, usava le mie parole, usavo le sue parole.
Io non ho ricordi del mio luogo di nascita, della casa dove ho visto la luce, ma queste colline sono le mie radici, l’ho sempre sentito. Le mura della mia casa di nascita sono la collina di San Cristoforo da un lato e quella di Marnacchia dall’altro. Non sono mai stato a San Cristoforo, quindi non so cosa si vede da lì, da quella che è la finestra della mia casa natale.
Ma è come se l’avessi sempre visto e saputo. E’ come se vi avessi sempre vissuto oltre.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,e questa siepe, che da tanta partedell’ultimo orizzonte il guardo esclude.Ma sedendo e mirando, interminatispazi di là da quella, e sovrumanisilenzi, e profondissima quieteio nel pensier mi fingo, ove per pocoil cor non si spaura. E come il ventoodo stormir tra queste piante, io quelloinfinito silenzio a questa vocevo comparando: e mi sovvien l’eterno,e le morte stagioni, e la presentee viva, e il suon di lei. Così tra questaimmensità s’annega il pensier mio:e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Aprendo a caso il volume, leggo alcune lettere di Leopardi al fratello Carlo, in cui racconta del suo soggiorno a Roma, dagli zii Antici, in via dei Funari. Mi sono rattristito, e non so' se più per le note infelici di molti versi del poeta, o più perché disegna l’immagine di una città avara di punti di riferimento, come il luogo di un brutto sogno. Tanto da confidare al fratello che neppure i monumenti provocano in lui alcun sentimento, anzi, "la moltitudine e grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno".
A volte le cose non succedono a caso, o meglio, a volte si è sufficientemente attenti a cogliere il nesso tra i fatti.
Mi è capitato in mano questo vecchio volume proprio oggi, dopo che stamani avevo messo in "ordine" le foto che avevo scattato lo scorso mercoledì 24 novembre, in via del Tritone, a Roma.
Fu proprio sul finire del mese di novembre, del 1822, che Giacomo Leopardi arrivò a Roma per la prima volta nella sua vita, ospite di parenti. Aveva ventiquattro anni ed era la prima volta che si lasciava alle spalle Recanati e il palazzo di famiglia. Nel suo baule da viaggio c’era una copia del Don Chisciotte in spagnolo, e nel suo animo un solo proposito giurato, trovare una sistemazione qualunque in città, anche a costo di prendere gli ordini religiosi o seguire all’estero un ricco straniero, pur di scrollarsi di dosso l’intollerabile tutela paterna.Insomma, pur di crescere, sentirsi uomo.
Le cose non sono mai per nessuno, così come le dipinge la speranza.
Così, passata la fame adolescenziale, la visione della vita fatta più di speranze che di progetti, attese più che di osservazione, mi appaga di più del piacere del nuovo, la soddisfazione della ricerca. Della scoperta dei piccoli dettagli che costituiscono, e tengono in piedi, il quadro che ho di fronte.
Così, anche scolorando gli oggetti, racchiuderli dentro il piccolo spazio visivo concesso dall'obiettivo della macchina fotografica, la vera sfida con me stesso, è quella di appagare i miei sentimenti con quello che mi riesce di raccogliere, più che attendere quello che potrebbe venire (ma anche non venire).
Così di quel mercoledì a Roma, per ricordarmi di cosa abbiamo discusso durante i vari incontri, devo andarmi a rileggere gli appunti, mentre per ricordarmi la luce, i rumori, i colori e le immagini attraversati a passo lento nei 15 minuti tra il pranzo ed il rientro in ufficio, mi basta chiudere gli occhi e pensarci.
E' come se oggi, rileggendo queste lettere di Leopardi, avessi portato a conclusione un viaggio, dalle Marche, dal mio paese natale, passando per i miei sogni da adolescente, le fatiche giovanili, per giungere a via del Tritone, come essere giunto alla presa di coscienza dell'uomo che sono...
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