Era il più veloce di Roma. Ma non fu questa la medaglia più splendente della sua breve vita
di Gaetano ValliniEra veloce il giovane Manlio Gelsomini, il più veloce di Roma: 11 secondi netti sui 100 metri. Un fiore all’occhiello di quel fascismo che aveva fatto del vigore fisico un emblema della gioventù e non solo. Col suo completo bianco, Manlio correva sulla pista della Farnesina, ogni giorno. Lunghe sedute di allenamento per essere il migliore. Ma non fu quella della velocità la medaglia più splendente della sua breve vita, e del resto scelse una strada diversa da quella sportiva. Di fatto, nemmeno quella definitiva. Alle piste preferì ben presto le corsie d’ospedale, come medico. E successivamente non esitò a svestire il camice per percorrere i sentieri nascosti della lotta partigiana, combattendo contro quel regime che pure, nel 1921, lo aveva annoverato quattordicenne tra le sue fila, e contro l’alleato nazista. Scelta quest’ultima che gli costò la vita. Ormai conosciuto come comandante Ruggero Fiamma, fu tradito da una spia collaborazionista e assassinato, dopo le torture in via Tasso, il 24 marzo del 1944 alle Fosse Ardeatine.A ripercorrere le tracce di quest’uomo, in un rincorrersi di passato e presente, è oggi Valerio Piccioni, giornalista sportivo evidentemente col pallino della storia, nel libro Manlio Gelsomini. Campione partigiano (Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2014, pagine 174, euro 14), che ricostruisce con passione e con scrittura avvincente «il percorso personale e politico di un giovane che, come altri della sua generazione, le circostanze e gli ideali trasformarono suo malgrado in un eroe». In intense pagine, in cui sport e storia — quella grande e quelle personali — si fondono fino a concretizzare quel motto secondo il quale lo sport è metafora della vita, Piccioni segue la vicenda umana di questo eroe quasi per caso ma non inconsapevole. Ed ecco, allora, i resoconti dei trionfi giovanili, delle gare dei campionati universitari dove nel 1927 vince il bronzo nella staffetta 4x100 (con tanto di testimone firmato dal Duce), del campionato italiano dei 100 metri vinto a Genova nel 1928, delle buone prestazioni con la maglia nazionale a Basilea e a Darmstadt nel 1930 fino a sfiorare l’olimpiade. E poi la laurea in medicina, l’arruolamento come capitano nel 79° Battaglione Camicie nere. Insomma, tutto sembrava scritto per Gelsomini, proiettato verso una fulgida carriera per dar lustro al regime e alla patria. Ma a un certo punto, record, medaglie, parate, vennero messe da parte. La vita aveva altri progetti per quel giovane. La svolta arrivò nel 1942 con la sospensione precauzionale dal grado. In realtà l’interessato non se ne stupì molto. In quel periodo aveva lavorato come medico prima al policlinico Umberto i, poi in un ambulatorio in piazza dell’Immacolata, a San Lorenzo, e si era scelto come assistente tirocinante Giorgio Piperno, un ebreo. Una decisione poco apprezzata in quell’Italia che aveva appena visto la pubblicazione dell’abominevole e infamante «Manifesto della Razza». Scomparso già da qualche anno dalle cronache dei giornali sportivi, il nome di Manlio Gelsomini sparì quindi anche dall’albo dei medici della Guida Monaci. Una cancellazione che di fatto significava l’uscita dal partito fascista, ma soprattutto l’apertura di un’altra fase, la terza e ultima, di una vita certamente movimentata, della quale si trova un ampio resoconto nel suo diario, scritto nei giorni di prigionia, e custodito al Museo storico della Liberazione di Roma. «Non sono nato per una vita facile, io. Amo l’imprevisto — vi si legge — e nell’assurdo trovo spesso la ragione filosofica del mio pensiero... Vado verso l’ignoto con la sete di voler sapere. Rischio il tutto per tutto». Rischio che si fece concreto dopo l’armistizio dell’8 settembre con la nascita di una formazione partigiana che tenne la sua prima riunione clandestina a Castel Sant’Elia, nel Viterbese, e nelle cui file compariva oltre a Gelsomini, già ribattezzato Ruggero Fiamma e nominato comandante, anche don Domenico Antonazzi, uno dei preti della Resistenza. Il passo verso l’azione fu breve: azioni di sabotaggio, attacchi a convogli nazisti, raccolta d’informazioni per gli Alleati. Ed era lo stesso comandante a fare la spola tra le montagne e Roma; del resto era il più veloce. Ma la linea dell’ultimo traguardo era già in vista. Un certo Pistolini, romano residente a Rio de Janeiro, vicino ai partigiani ma prezzolato dalle ss, fece arrestare alcuni combattenti, tra i quali Manlio Gelsomini. Era il 13 dicembre 1943.Rinchiuso una prima volta nel carcere di via Tasso, liberato e poi riarrestato il 13 gennaio, il comandante partigiano venne torturato a più riprese. «Anche il mio fisico soffre molto. Il cibo è insufficiente — scrive nel diario — e sono denutrito e stanco. Ho fame, sempre fame. Non ho quasi più la facoltà di pensare». In quelle pagine che sono l’unica scappatoia, e che Piccioni ripropone ampiamente nel libro, emerge lo stato d’animo di Gelsomini, che a via Tasso rimarrà settantasei giorni. Uscirà qualche ora dopo l’azione partigiana di via Rasella, incappando nella feroce rappresaglia ordinata da Berlino e che porterà al massacro di 335 civili e militari italiani alle Fosse Ardeatine. Lì s’interruppe la sua corsa più importante: quella verso la libertà. Gelsomini venne ben presto dimenticato, come sottolinea con rammarico Piccioni. Solo a guerra finita una sua fotografia comparirà un’ultima volta sulle pagine di un giornale: stadio dei Marmi, lui fermo sui blocchi di partenza, in attesa del via. E anche se oggi a Roma a ricordarlo ci sono quattro lapidi e una strada a Testaccio, pochi conoscono la sua storia.Questo libro colma dunque un vuoto e in qualche modo rende giustizia anche al desiderio della madre Sparta di vedere finalmente raccontata con completezza la vita del suo Manlio.
(©L'Osservatore Romano – 9 luglio 2014)