Vivere nell’epoca del remix, dell’ibridazione delle discipline e della transmedialità dà l’opportunità di conoscere l’opera di artisti contemporanei come il veneziano Lorenzo Vitturi (1980), autore capace di intrecciare fotografia, reportage, scultura e installazione. Lo dimostra il suo ultimo lavoro proteiforme, “Dalston Anatomy”, vincitore del Gran Premio della giuria a Hyères 2014 nella sezione fotografia.
Oltre a essere stato oggetto di una mostra al FOAM di Amsterdam e installazione performativa al Victoria & Albert Museum, “Dalston Anatomy” è anche un libro in tiratura limitata – consigliato da Martin Parr – che coniuga l’indagine sociale, antropologica e artistica attraverso still life di oggetti recuperati dal mercato londinese di Dalston.
Mentre si prepara alla prossima mostra (1/8/2014) alla Photgraphers Gallery di Londra, la città dove vive da anni, Lorenzo ci racconta il suo percorso artistico e come nelle sue esposizioni riesca a trovare la sintesi delle varie arti, oltre a un contatto priviliegiato con il pubblico.
Prima della fotografia sei stato pittore di scena. Questa esperienza come ha influenzato il tuo percorso?Mentre studiavo fotografia e design allo IED ho iniziato a lavorare a Cinecittà come pittore di scena, soprattutto per film storici. Mi occupavo di ricreare materiali preziosi come il marmo e l’oro usando tecniche pittoriche. Ho lavorato con diversi registi e scenografi, anche in produzioni grandi, come per Disney. Questo mestiere mi ha insegnato molto, infatti buona parte delle tecniche apprese le ho trasferite nei miei progetti artistici e fotografici.
Per quale film Disney hai lavorato?Si trattava di Casanova (2005), il primo film girato interamente a Venezia. Nella troupe di 400 persone, facevo parte di una squadra di scenografi molto numerosa per la grande quantità di muri, marmi e navi finte da disegnare. Per realizzarle bisogna conoscere tecniche artigianali antiche, molto ricercate da Hollywood.
Anthropocene
Anthropocene
Anthropocene
Dalston Anatomy
Dalston Anatomy2
Dalston Anatomy, il libro
Dalston Anatomy
Dalston Anatomy
lorenzo.vitturi
Dalston Anatomy
Chi sono stati i tuoi maestri?Alfonso Fortunati – figlio di un grande pittore – che ha lavorato con Fellini e con grandi registi. Gianni Quaranta, premio Oscar per la scenografia di Camera con vista, con cui ho lavorato a uno sceneggiato della regista Francesca Archibugi. E Antonio Di Marino, scenografo degli ultimi film di Tinto Brass.
Com’è avvenuto il passaggio alla fotografia?La fotografia unisce le mie passioni: la pittura, l’arte e la scenografia. Sono sempre stato interessato anche al racconto della realtà. Dopo i miei reportage, ho capito che ciò che mi interessa è lo “stage photography”: costruire la scena. Un lavoro a metà fra finzione e realtà.
Quali lavori ti hanno fatto capire che eri sulla strada giusta?Due lavori in particolare. Il primo è stato la mia tesi di laurea, “La stupenda e misera città”, un lavoro su Pasolini e Roma che ho presentato a 23 anni al Festival internazionale della fotografia di Roma. Ero andato a ricercare le location dei primi film di Pasolini a Roma, Mamma Roma e Accattone, che in quel momento stavano distruggendo. Soprattutto nel quartiere del Pigneto, oggi in piena fase di gentrificazione. Lì ho costruito delle scenografie temporanee dove ho ricreato delle atmosfere pasoliniane. Il secondo lavoro che ha confermato la mia consapevolezza è stato come fotografo di scena per il regista Peter Greenaway, uno dei miei idoli. Ho lavorato per lui al film The Tulse Luper Suitcase, da cui è nato un mio progetto personale e una mostra a Roma: “Il feticismo della visione”. Lì ho capito la potenzialità del mezzo fotografico, del set e della messa in scena.
Con “Dalston Anatomy”, il lavoro vincitore di Hyères, sei riuscito a trovare l’armonia visiva in uno dei luoghi più caotici per eccellenza: un mercato di quartiere. Ci racconti com’è nato e come hai lavorato al progetto?È stato il mio primo lavoro a durare così tanto: due anni. All’inizio non avevo un’idea precisa, facevo esperimenti nel mio studio di Londra, vicino al mercato di Dalston, fotografando piccole sculture realizzate a partire da oggetti trovati.
Questo luogo è una miniera di materiale interessante e a basso costo per il mio lavoro. A un certo punto ho capito che il quartiere stava cambiando molto a causa della gentrificaticazione e che avevo gli elementi per lavorare a un progetto. Le comunità africana e turca, con un’identità molto forte, stavano per essere espulse da Dalston con l’arrivo di una nuova classe alto borghese.
Ho iniziato a fare i ritratti alle persone, a raccogliere ogni materiale che trovavo per terra e che spesso e volentieri provenivano dalle case abbandonate di queste famiglie costrette ad allontanarsi. Alla fine ho rielaborato gli elementi nel mio studio e ho fotografato le sculture.
Quindi la fase di ricerca è stata più lunga di quella compositiva?Nei miei lavori precedenti c’era una grande fase preparatoria. In questo caso il lavoro compositivo è stato più energico, veloce e istintivo. Volevo ricreare l’atmosfera del luogo. Senza schizzi preliminari, appena trovato l’equilibrio, lo fotografavo.
Stavi per tradurre questo processo, ma all’inverso, in un mercato della Repubblica Centrafricana?In una città di questo Paese, nel mezzo della giungla, c’è un mercato libanese che vende soli prodotti occidentali. Una sorta di Dalston al negativo. Purtroppo è scoppiata una guerra e non ho potuto restare a sufficienza. Spero di poterlo ricominciare.
Nelle tue foto si sente sempre un senso di precarietà controbilanciato dall’energia dei colori. Queste dimensioni cosa raccontano di te?Sono veneziano e la decadenza fa parte del mio Dna. Allo stesso tempo il colore è ciò che dà vita al mio lavoro da sempre: è dentro di me. Nel libro [link] nato da questo progetto, sono riuscito per la prima volta a unire questi due aspetti contrastanti.
Come hai fatto a mantenere l’anima scultorea anche nel libro?La copertina sfrutta un’ampia stoffa recuperata al mercato, che somiglia a una stampa africana, ma è prodotta in Olanda e rivenduta in Africa, quindi in linea con il progetto. Ogni doppia pagina è invece uno spazio delimitato, che ho cercato di riempire per creare un lavoro organico. Ho pubblicato 700 copie, oltre a 100 in edizione limitata. Qualche giorno fa è uscita la seconda edizione.
Fai anche workshop con giovani studenti. Cosa consigli a chi inizia a lavorare in questo mondo?Investire al massimo le energie nel proprio lavoro e nello studio, per creare una visione unica e inimitabile. Oggi la tecnica è importante, ma tutti sono potenziali fotografi, quindi occorre un’identità riconoscibile. L’altro aspetto importante è riuscire a promuovere il proprio lavoro.
La tua prossima sfida artistica?Ho diverse mostre in programma. Ogni volta cerco di reinventarmi, perché il mio processo non si ferma allo scatto dell’immagine, ma cerco sempre di trasformarla in qualcos’altro. Sto progettando un nuovo libro, questa volta più concentrato sulla realizzazione delle mie sculture effimere.