Damiano Damiani
E’ morto ieri sera a
Roma Damiano Damiani (Pasiano di Pordenone, 1932), tra i registi più poliedrici ed inventivi del nostro cinema.
La sua abilità narrativa, volta ad attraversare diversi generi, riusciva a conciliare l’affabulazione propria del piacere di raccontare, dal forte afflato popolare, con toni riflessivi.
Lo si può certo considerare un valido artigiano, così è sempre stato definito, ma non bisogna dimenticarne la poetica ed estetica cinematografica, nascoste tra le pieghe del genere e della suddetta fluidità narrativa, consistenti nella capacità di far notare ogni involuzione sociale e morale nel contesto storico italiano, dall’ evoluzione del fenomeno mafioso ai rapporti tra criminalità organizzata e politica, passando per i vari bubboni che si insinuano a macchia di leopardo in ogni esternazione del potere.
I suoi esordi nel mondo del cinema, dopo aver studiato pittura a Brera, lo vedono attivo come sceneggiatore, una volta trasferitosi a Roma, nel’46, per debuttare dietro la macchina da presa con il documentario
La banda d’ Affori, ’47, cui segue, ben sette anni dopo,
Le giostre.
Occorrerà attendere il ’61 perché Damiani dia inizio alla sua vena prolifica ed inventiva, grazie a pellicole come
Il rossetto e
Il sicario, fortemente calate nel reale e capaci di calamitare l’attenzione del pubblico, grazie ad uno stile diretto ed incisivo. Senza perdersi nel solito elenco di titoli, ne ricorderò quelli che, a mio avviso, ne evidenziano maggiormente le sue doti di regista attento e curioso in egual misura, vedi i riusciti adattamenti dei romanzi
L’isola d’Arturo (Elsa Morante) e
La noia (Alberto Moravia), cui contribuirono in qualità di sceneggiatori, rispettivamente, Cesare Zavattini e Tonino Guerra, o il bellissimo
La rimpatriata, ’63, dove risalta una magistrale interpretazione di Walter Chiari, critica della “buona borghesia” del periodo, che ha perso la capacità di credere alla realizzazione dei propri sogni, preferendole un comodo adattamento allo stato delle cose, pur nella difficoltà d’inserirsi propriamente nel contesto sociale.
Nel ’67 dirige
Quien sabe?, tra gli apripista del cosiddetto “western politico”, scontro di diverse ideologie sullo sfondo della rivoluzione messicana, rappresentate dalle ben studiate psicologie dei protagonisti (El Chuncho/Gian Maria Volontè; Bill Tate
Nino/Lou Castel; El Santo/Klaus Kinski), mentre del ’68 è il suo film più noto,
Il giorno della civetta, dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, con
Claudia Cardinale e Franco Nero, probabilmente la migliore resa di Damiani nel conciliare realismo, tensione narrativa e senso dello spettacolo. Seguono negli anni ’70 titoli volti ad inserirsi nel filone del “cinema civile”, che possono ritenersi confluenti tra loro:
Confessioni di un commissario di polizia al Procuratore della Repubblica (’71),
L’istruttoria è chiusa: dimentichi – Tante sbarre (‘72),
Perché si uccide un magistrato ( ’74), sino a
Io ho paura (’77), fra i primi film a rappresentare, sempre in un impianto da buon poliziesco, il fenomeno del terrorismo.
Dopo gli anni’70, in sintonia con la crisi del cinema italiano, che man mano s’avviava a perdere quella “sana” artigianalità, capace di conciliare autorialità creativa e l’andare incontro ai gusti del pubblico, Damiani non sempre riuscirà a colpire nel segno, per cui tra felici intuizioni (
Pizza Connection, ’85, vincitore dell’Orso d’Argento al
Festival di Berlino o
L’inchiesta, ’87, film apparentemente anomalo nella sua carriera, ma in realtà aderente alle tematiche a lui care), il suo lavoro migliore resta la prima serie de
La Piovra, film tv prodotto dalla Rai (sei episodi dall’11 al 19 marzo ’84), con
Michele Placido protagonista, nei panni del commissario Cattani. Qui Damiani condensa il suo stile asciutto e realista, offrendo anche in televisione una realizzazione che rappresenta, una volta per tutte, la concreta e lucida espressione di una sempre avvertita esigenza intellettuale, morale e civile, volta a raccontare ogni stortura del nostro paese.