Daniela Andreis - Aestella

Da Ellisse

Un libro suggestivo, questo qui di Daniela Andreis edito da Incerti Editori, Viagrande (CT), 2011. Fin dal titolo, aestella, (sì, con la virgola, cioè con una sospensione necessaria - dopo questo vocativo/invocativo - per prendere l'abbrivio, un preludio a chissà cosa, a chissà quali aperture di senso). E poi la forma, certo, forse un romanzo epistolare, forse (e più probabilmente) una prosa poetica in cui, come in una roccia intrusiva, le venature liriche premono per brillare alla luce.

Se parlo di accenti lirici qui preminenti non è un caso. Lo faccio con qualche riferimento al dibattito sulla poesia in prosa che da qualche tempo si sta svolgendo e che, va detto subito, libri come questo in un certo senso elidono. In soldoni: se la poesia in prosa, come oggi comunemente intesa e con i suoi più noti frequentatori, esplora il linguaggio, lo intreccia sperimentalmente, salta a pie' pari la narrazione, usa la forma come contestazione sia del reale sia delle forme che la precedono, nella prosa poetica come questa di Andreis si resta - giustamente - nell'ambito, anche tematico (l'io, i sentimenti, l'assenza ecc.) più propriamente lirico, alla ricerca - per mezzo di un linguaggio limpido - di un significato a volte oscuro.

Non sappiamo chi è veramente aestella, non sappiamo, come avverte il risvolto di copertina, esattamente il suo genere e i suoi tratti, forse non sappiamo nemmeno se è una persona o un'idea (o ombra) platonica. Nel susseguirsi di epistole senza risposta, come si conviene a un rapporto spezzato, a una comunicazione interrotta, si compone un diario di mancanze, solitudini, si misura "il metro del tuo silenzio" e non ostante questo, dice l'autrice, "di sintassi in sintassi, io sono le tue parole e tu le mie". Contemporaneamente quindi si celebra un amore per la parola che accade e i suoi disvelamenti ("tutto è cominciato con la parola addiaccio"), si immagina, negli spazi e nei silenzi tra una missiva e l'altra, la rete di fatti che continuano ad avvenire, i filamenti di vita che intercorrono e scorrono. Molto, in questa prosa poetica, soprattutto gli accostamenti simbolici, i tratti surreali, le eco metaforiche, concorre al suo indubbio fascino, a quella attrazione che ci induce a spiare frammentari indizi, per vedere, come nei racconti, se e come andrà a finire. Qualcosa  che a me ricorda, ça va sans dire, il Dino Campana de " Il viaggio e il ritorno" ("Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d'amore di viola"). (g.c.)

aestella,

vorrei che questa mia prima lettera ti arrivasse un mercoledì. Non sai la grazia con la quale le lettere del mercoledì aspettano la mano che le prenderà, le soppeserà appena, le girerà dove è scritto l'indirizzo per vedere se è il tuo nome quel nome, se è stato scritto in fretta, occupando poco o molto spazio, se sul davanti ci sia un indizio di chi l'ha spedita o, meglio, se si porti appresso un odore stagionale, se sia un poco ondulata da scrosci di pioggia o ancora croccante di sole.
aestella,
ti parlo dall'imboccatura di un tubo vuoto che passa nei sotterranei della città, le voci si stratificano e gli archeologi le ritrovano a forma di clavilithes, o come piccoli cristalli di calcite. Questo tubo sale per le case, bucando pavimenti e soffitti, costeggiando i perimetrali di stanze dove si risciacquano bicchieri e si ripiegano tovaglie di cotone, in una quotidianità che sembra arrivare da secoli remoti. Sicché, aestella, anche la mia voce ti arriverà a rimbombo, una specie di spiritello, forse Ariel stesso che, con il guizzo e l'istinto dell'anguilla, risalirà fino a te.
aestella,
amo le tue pause e i tuoi silenzi. Mi pare di sentirli piovere dai soffitti e dai pavimenti. Eccone uno, nato da un nonnulla, da un innocuo gioco. Amo quando non dici più niente e in realtà sei lì lì per prendere la rincorsa di un discorso e sei concentrato come il nuotatore prima del tuffo: alzi le ginocchia, unendole nell'esatto momento dello slancio dalla rampa. E' quando sta per accadere la parola, che tutte le cose possono succedere. Allora taccio, creando il passaggio dal quale si accede a tutte le fondamenta di questo mondo, dalle palafitte ai vertiginosi palazzi. E' qui che ci incontriamo: dove non percepiamo più nulla se non i rombi lontani di quello che sta per succedere, di sotto, da qualche parte, sopra o sotto di noi. Nel punto in cui inizia la cascata o la frana. Amo la tua bocca di vetro infrangibile, aestella, ha un punto di frangibilità che ti è sconosciuto e che scopri solo se pronunci la parola tagliente, senza volerlo. Allora sia io che te esplodiamo in migliaia di schegge, nei baci che non abbiamo dato e che sono avvertibili come sottili fessure di cedimento, longitudinali. Ed ognuno di noi è trasparente. Ed ognuno di noi cade.
aestella,
ti scrivo ancora da questo posto siderale, senza inchiostro verde, con un debito di parole verso chi aspetta di stringere l'ultimo calore della mano che ha amato tutta la vita, l'ultimo intreccio di dita che si concederà la donna con gli occhi ad asola. Non le ho scritto, come volevo fare con te, mi sono fermata a pensare solo al giorno in cui comperai l'inchiostro per le lettere: un signore di poche parole che disegnava insetti, mi spiegò le differenze dei verdi e mi mostrò una foglia lunga, per farmi capire il colore. Voglio una foglia più scura, avrei voluto dirgli se la lingua non me lo avesse impedito, una foglia forte, di fico, di castagno. Accettai la boccetta che scelse per me e il curioso pennino a manina con cinque dita appuntite con il quale tracciò linee ad onda su un foglio. Per un po' sono stata tra linea e linea come le miriadi di cose che stanno, nella poesia, tra riga e riga e tra il mio silenzio e il tuo. Questo credo, aestella, di aver imparato oggi, vedendo quelle righe parallele, leggendo parole incomprensibili, poesie francesi: tra le strofe passava di tutto, come per un grand boulevard. Tra linea e linea può crescere un prato di fili d'erba sottili. Le notti sono tardive e lontanissime qui, verrebbe da invocarle insieme all'aria che di sera vortica all'imbocco delle scale, verrebbe da invocare l'ultima notte, senza peregrinare stanchi nelle infinite notti in cui conto le cose che non ho fatto, detto, scritto. Verrebbe da svegliarsi con un'età inventata per ingannare il momento del risveglio - o accelerarlo - raccontandosi una storia, sempre quella, come Beckett quando ripeteva l'impresa del ragazzo del faro che ogni volta brandisce un coltello tra i denti, si tuffa tra flutti agitati e ogni volta ha ragione sul pesce feroce che insidia le rive. Ma io, aestella, sono un eroe piccolo, da imprese rimandate, non riesco a digrignare coraggio e mi commuovo a sentirti ridere, a guardare la bacheca delle Poste sulla quale è stato appeso, con una puntina da disegno, un calzino rosso da bambino e un avviso: ritrovato in Rue de Fourcy. Se mi perdo, aestella, appendi un mio calzino da qualche parte, può darsi che qualcuno venga a prendermi.
aestella,
dove vanno le parti di vita che si sono divise con qualcuno che ami? A pensarci, mi viene in mente che quel giorno ti ho lasciato un ginocchio, una spalla, il gomito e le labbra e gli occhi. Eppure sono ancora tutta intera, pur se dolorante e senza pace. Qualcosa ho diviso con te, aestella, e tu, ti sei portato via la pace di quel giardino disseccato e del mio corpo. Va contro l'anatomia, l'astronomia, la medicina, la matematica e tutte le scienze esatte, se dividendo con te il cuore, aestella, il cuore anziché spezzarsi raddoppia?
aestella,
tutto è cominciato con la parola addiaccio. La maestra ce la fece trascrivere sul quaderno a righe, dopo averla incontrata in una poesia da sussidiario, forse. La scrissi piano, ordinatamente, congiungendo con attenzione le doppie, come fossero bambini che si prendono per mano, ci diceva l'insegnante. La maestra aveva capelli ricci e crespi, un pagliericcio per le civette. Addiaccio entrò nella mia vita e la divise in due. Da una parte c'ero io col naso e con le dita rosse in cortile, i salti a pie' pari per frantumare con gioia il ghiaccio delle pozzanghere, i rami ricoperti di calinverna, la bruma mattutina, il giazìn, la sguazza della sera, dall'altra l'addiaccio che con la sua potenza fece, improvvisamente, tremare il cane lupo di notte, paralizzare il pino davanti a casa, seccare le gemme e uccidere qualcuno che avesse dormito fuori. L'addiaccio divenne anche il muro alla destra
del mio letto, i legni immaturi della legnaia, le mani di onice di mia nonna, la mancanza notturna delle consonanti, delle sue storie, il fiocco floscio sul colletto della giallognola Giovanna, la bambina più povera della classe, l'ossatura della paura. Così, aestella, stamattina è tornato di colpo l'addiaccio, con le sue mani strette tra le doppie: non tu, ma questa parola mi aspettava fuori, in terrazza, dove l'addiaccio stringeva le braccia del gelsomino che ansima per ritrovare i suoi fiori. Ho dovuto chiudere la porta in tutta fretta, tapparmi le orecchie, perché la sua voce bianca veniva da un pozzo, da un buco nel tempo. Ho cercato di mettere un inutile paravento tra l'innocuo giazìn e il feroce addiaccio. Ma in mezzo, in mezzo, io so che brulica tutto quello che unisce e non unisce le due parole, il silenzio ronzante del mondo, la mia anima spaccata in due da un'accetta, i baci sulle otto nocche, i tabelloni dei treni, i vestiti senza la cerimonia, i piedi scalzi nel vuoto e tutta la mia incapacità di percorrere il ponte del male e di liberare il gelsomino dal suo doloroso inverno e restituirlo a braccia bambine.

Daniela Andreis è giornalista. Vive a Legnago (Verona). Ha pubblicato le raccolte di racconti e fotografie La terra piana (Nuoviorizzonti, 2001) e I maestri del tabacco (Nuoviorizzonti, 2004). Con il racconto La leggenda vera della strega di Terranegra ha vinto nel 2001 il premio di narrativa Giulio Leati. Ha curato nel 2009 la biografia Due centimetri tra mare e fiume. Storia di Mario Crocco. Nel 2011 ha ricevuto una segnalazione al premio Lorenzo Montano con la poesia E per non dire.

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