Daniele Paladini
1. Ciao, Daniele.
Ciao, Daniele, io continuo a ricordarti con quel tuo bel viso sereno, quel sorriso tutto salentino, una distesa di fiducia e di speranze che s’allarga sulla tua faccia buona, anche se sei morto tre anni fa e nessuno sembra più ricordarsene, a parte i tuoi cari.
Era il 24 novembre 2007, e tu eri in attesa di rientrare in Patria, a casa tua, per le feste natalizie, che ora tornano quasi senza più memoria di te, qui, nel Salento, la tua patria antica. Sei morto per difendere un ponte, il “tuo” ponte, che avevi smontato, aggiustato, ridipinto, rimesso a nuovo. Era più di un mese che ci lavoravi a quel vecchio ponte afgano, abbandonato dai sovietici, a Paghman, un villaggio di poche anime, a soli 15 chilometri da Kabul, e quel ponte si doveva inaugurare proprio quel giorno, quel fatale maledetto 24 novembre, dinanzi alla popolazione, e alle autorità locali. Era, avrebbe dovuto essere un ponte di pace, un anello di speranza.
Invece quel ponte – e tu con lui – è stato fagocitato dalla logica della guerra, è entrato nell’occhio mostruoso dell’odio dell’uomo contro l’uomo che tutto diverge, frantuma, disintegra, distrugge: la vita, i sensi, i progetti, i sogni, le speranze, tutto; è l’oltraggio quotidiano al lavoro, all’onestà, all’intelligenza operosa dell’uomo, sesso idee emozioni colazione, pranzo, cena, carezze, saluti, baci, ciao papà, a presto mamma, tutto finito in un ordigno d’ira, in un fiume di sangue; poi, bandiere, medaglie, picchetti d’onore, salve di cannoni, parole, suoni, ma rimane solo l’immenso silenzio, la solitudine e lo strazio dei familiari e dei pochi amici che ancora ti ricordano. Sembrano essere passati non tre, ma tre mila anni.
«Il fatto è che non era uno che si tirava indietro», continua a ripetere lo zio Giovanni Stefanizzi, come una puntina di microfono spuntata. E non lo ha voluto fare neanche quel giorno, vicino a quel maledetto ponte. E pensare che pochi giorni ancora, e sarebbe tornato a casa, dalla moglie, dalla figlia, dai genitori.
2. Il ponte maledetto
Ma un ponte non è mai maledetto, è qualcosa che unisce, affratella, accomuna, anche quando le sponde opposte da ricongiungere sono infinite e infinitamente lontane. E’ un’opera architettonica dal lungo corpo composito, cemento, legno, metallo, con una sua anima. E questo tu lo sapevi bene, Daniele, perché su quel ponte c’era la tua anima, il tuo genio di pontiere straordinario, uno che sapeva costruire ponti come archi di pace, ma col rischio costante e consapevole della vita perché da sempre c’è chi i ponti li distrugge, li vuole far crollare, da sempre i pontieri del genio militare muoiono negli incidenti di cantiere perché gli elementi dei ponti sono grossi, pesanti e definitivi, basta un errore o il cedimento di un elemento e si muore. Una vita, la tua irripetibile vita avvampa in una notte senza fine, con cerchi di cellule ustionate, con mille ferite mortali che masticano l’umido bruciato, con l’odore di lutto tra i pescatori afgani e quelli del Salento. La tua vita finisce con l’ultima brezza, ormai devastata, spenta da un kamikaze, una bomba umana frutto dell’odio, ma anche della miseria.
3. Il Maresciallo Paladini
Si è spento così il Maresciallo Capo Daniele Paladini uno che amava con umile grata e diuturna passione la vita che gli era stata data, uno dal sorriso buono, e pieno di meraviglia, un costruttore di ponti, che solo poche ore prima aveva detto alla moglie, alla figlioletta e alla madre, – State tranquille, qui è tutto tranquillo, rischiate più voi col traffico sulle strade, e poi ho pochi giorni ancora da restare, per le feste sarò con voi, e faremo meraviglie, perché solo la meraviglia ci potrà salvare. Invece è venuto prima, dentro una bara ricoperta dal tricolore, è morto nella sua stagione più bella, a soli trentacinque anni, questo nostro soldato.
Il mondo è pieno di soldati. Ma i soldati veri, quelli sono pochi. E il Maresciallo Daniele Paladini era un soldato vero, “un soldato eccezionale”, disse il Colonnello Di Fonzo, comandante del contingente di Kabul. Nel senso buono, positivo del termine, che implica disciplina, lealtà, fierezza, spirito di sacrificio, orgoglio, amor di patria, termine caduto in disuso, anzi quasi sbeffeggiato, ma che in lui aveva ancora un alto significato. Daniele era tutte queste cose, e per capirlo basta guardarlo in faccia, guardate quella sua faccia pulita, intensa, bella, faccia salentina alla Don Tonino Bello, di Alessano, o all’ Aldo De Donno, di Maglie, ex Capo di Stato Maggiore della Marina, metà santo e metà guerriero, con un sorriso luminoso, un sorriso pieno di meraviglia, un sorriso buono. E poi lo sguardo profondo, che era un incendio azzurro. C’era tutto in quello sguardo, il passato e l’avvenire, il cielo e il mare della sua terra d’origine, Lecce, il Salento. E la storia di quell’antico popolo abitava dentro di lui, i messapi, domatori di cavalli, ma anche quieti pastori, ceramisti, contadini, pescatori, poeti. E guerrieri, anche, ma per necessità, per difendere la propria famiglia, la propria gente, la propria terra. Lui è morto per difendere un ponte, il 24 novembre 2007, il giorno stesso in cui gli italiani riconsegnavano quel ponte, da lui rimesso a nuovo, alla popolazione martoriata di Kabul. Ecco il vostro ponte, l’ho rifatto nuovo, gli ho ridato un’anima, vedete è come un fiore della notte, è come una stella che si aggiunge e gioisce insieme alle altre che stanno in cielo, è come un papavero rosso fra le spighe.
4. Il terrorista fra i suoi sogni stellati
Era lì, fra questi suoi sogni, fra ritagli stellati, come quando da ragazzo correva lungo i muretti a secco della sua terra, e tra gli ulivi e le piante grasse, a inseguire le lucciole nelle sere piene di silenzio circolare, era lì, Daniele, in attesa delle autorità, della folla dei civili, degli altri soldati, quando ha notato il terrorista che cominciava ad avvicinarsi lungo il greto del fiume, nascondendosi grazie ad una fila di alberi. Aveva l’occhio in direzione del buio, quel povero terrorista, la congiunzione per e nella nullità, ma non lo sapeva, tutto preso dal delirio folle di una vertigine di squilibri senza fine, nelle simmetrie dell’orrore che la guerra reca con sé, diventa banalità quotidiana
«L’obiettivo del terrorista – dirà il Comandante di Italfor – erano proprio i civili, ed i soldati della Nato. Daniele gli è andato incontro, gli ha intimato l’altolà, ma quello non si è fermato, ha fatto un passo ancora e si è fatto saltare in aria». E insieme a lui altri nove morti civili, tra cui tre bambini e tre soldati feriti italiani. La strage è avvenuta alle 9.52 locali, le ore 6.22 in Italia, quando la moglie, la figlioletta e la madre venivano svegliate di soprassalto.
5. Non era un “eroe per caso”
Daniele non era un eroe per caso, come fu scritto su qualche giornale; era un eroe per vocazione, oserei dire per destino, fatalità, o ancora di più, per un’idea stessa di eroismo che ci formiamo nella mente e che viene da lontano, dall’antica Grecia di Omero insieme alla musica e alla poesia, al canto caldo che fanno i cieli rossi dei tramonti pieni di solitudine e malinconia. Era, insomma, un eroe umile, un eroe salentino, pienamente cosciente di quel che faceva e dei rischi che correva, a cui non poteva e non voleva sottrarsi.
Era un uomo gentile, con un cuore dolce, che faceva il soldato.
Disse a suo tempo il Generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo, che Daniele Paladini “era morto da Eroe perché si era sacrificato coscientemente salvando altre persone e combattendo corpo a corpo con un nemico armato. Ma era anche un Soldato Nuovo, in grado di osservare l’ambiente, di capire l’avversario e che sceglie coscientemente d’intervenire sul singolo piuttosto che sparare nel mucchio. E per questo la morte di Paladini è ancora più dolorosa e amara. Un Eroe è sempre una persona eccezionale e il vuoto che lascia è incolmabile, ma perdere in Afghanistan un Soldato Nuovo che agisce come un Uomo tra uomini è una vera tragedia. Per tutti”.
“Il Salento vomita morti”, diceva Carmelo Bene, e si riferiva non solo ai martiri di Otranto, dimenticati dalla storia dell’Italia ufficiale, ma a tutti quelli che considerava i martiri di oggi, appunto il forte contingente di salentini che s’era arruolato nella polizia, nei carabinieri, nelle forze armate, salentini che ora si ritrovano ovunque, in terra, nel mare e per i cieli, fratelli di sangue, carne da macello, ma anche costruttori di meraviglie e di pace.
Il maresciallo Paladini non è la risposta a chi si chiede “che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan”, come scrive Vittorio E. Parisi sull’ Avvenire. No, è morto solo per difendere un ponte; perché era il suo dovere, la sua vocazione, il suo destino, su quel ponte ha visto per primo, ha intuito per primo quel che stava accadendo, ed è andato incontro a quell’attimo definitivo, che è di coraggio, di desiderio, di verità, forse di gloria.
Ma quanto dura – oggi – la gloria?