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Daniele Paladini, morte di un eroe salentino

Creato il 19 gennaio 2011 da Cultura Salentina

Daniele Paladini, morte di un eroe salentino

Daniele Paladini

1. Ciao, Daniele.

Ciao, Daniele, io continuo a ricordarti con quel tuo bel viso sereno, quel sorriso tutto salentino, una distesa di fiducia e di speranze  che s’allarga sulla tua faccia buona, anche se sei  morto tre anni fa e nessuno sembra più ricordarsene, a parte i tuoi cari.

Era il 24 novembre 2007, e tu eri in attesa di rientrare in Patria, a casa  tua, per le feste natalizie, che ora tornano quasi senza più memoria  di te, qui, nel Salento, la tua patria antica.  Sei morto  per difendere un ponte, il “tuo” ponte, che avevi  smontato, aggiustato, ridipinto, rimesso a nuovo. Era più di  un mese che ci  lavoravi  a quel vecchio ponte afgano, abbandonato dai sovietici, a Paghman, un villaggio  di poche anime, a soli 15 chilometri da Kabul, e  quel ponte  si doveva inaugurare proprio quel  giorno, quel fatale maledetto 24 novembre, dinanzi alla popolazione, e alle autorità locali. Era, avrebbe dovuto essere  un ponte di pace,  un anello di speranza.

Invece  quel ponte – e tu con lui – è stato fagocitato dalla logica  della guerra, è entrato nell’occhio mostruoso dell’odio  dell’uomo contro l’uomo che tutto diverge, frantuma, disintegra, distrugge: la vita, i sensi, i progetti, i sogni, le speranze, tutto; è  l’oltraggio quotidiano al lavoro, all’onestà, all’intelligenza operosa dell’uomo, sesso idee emozioni colazione, pranzo, cena, carezze, saluti, baci, ciao papà, a presto mamma, tutto finito in  un ordigno d’ira, in un fiume di sangue; poi, bandiere, medaglie, picchetti d’onore, salve di cannoni, parole, suoni, ma rimane solo l’immenso silenzio, la solitudine e lo strazio dei familiari e dei pochi  amici che ancora ti ricordano. Sembrano  essere passati non tre, ma tre mila  anni.

«Il fatto è che non era uno che si tirava indietro», continua a ripetere  lo zio Giovanni Stefanizzi, come una puntina di microfono spuntata. E  non lo ha voluto fare neanche  quel giorno, vicino a quel maledetto ponte. E pensare che pochi  giorni ancora, e sarebbe tornato a casa, dalla moglie, dalla figlia, dai genitori.

2. Il ponte maledetto

Ma un ponte non è mai maledetto,  è qualcosa che unisce, affratella, accomuna, anche quando le sponde opposte da ricongiungere sono infinite e infinitamente lontane. E’ un’opera architettonica dal lungo corpo composito, cemento, legno, metallo, con una sua anima. E questo tu  lo sapevi  bene, Daniele, perché su quel ponte c’era la tua anima,  il  tuo genio di pontiere straordinario, uno che sapeva costruire ponti come archi di pace, ma col rischio costante e consapevole della vita  perché da sempre c’è chi i ponti li distrugge, li vuole far crollare, da sempre i pontieri del genio militare muoiono negli incidenti di cantiere perché gli elementi dei ponti sono grossi, pesanti e definitivi, basta un errore o il cedimento di un elemento e si muore.  Una vita, la tua irripetibile vita avvampa in una notte senza fine, con cerchi di cellule ustionate, con mille ferite mortali che masticano l’umido bruciato, con l’odore di lutto tra i pescatori afgani e quelli del Salento. La tua vita finisce con l’ultima brezza, ormai  devastata, spenta da un kamikaze, una bomba   umana frutto dell’odio, ma anche della miseria.

Daniele Paladini, morte di un eroe salentino

3. Il Maresciallo Paladini

Si è spento così il Maresciallo Capo Daniele Paladini uno che amava con umile grata e diuturna passione la vita che gli era stata data, uno dal sorriso buono, e pieno di meraviglia, un costruttore di ponti, che solo poche ore prima aveva detto  alla moglie,  alla figlioletta e alla madre, – State tranquille, qui è tutto tranquillo, rischiate più voi col traffico sulle strade, e poi ho pochi giorni ancora da restare, per le feste sarò con voi, e faremo meraviglie, perché solo la meraviglia ci potrà salvare. Invece è venuto prima, dentro una bara ricoperta dal tricolore, è morto nella sua stagione più bella, a soli trentacinque anni, questo nostro soldato.

Il mondo è pieno di soldati. Ma i soldati veri, quelli sono pochi. E il Maresciallo Daniele Paladini era un soldato vero, “un soldato eccezionale”, disse il Colonnello Di Fonzo,  comandante del contingente di Kabul. Nel senso buono, positivo del termine, che implica disciplina, lealtà, fierezza, spirito di sacrificio, orgoglio, amor di patria, termine caduto in disuso, anzi quasi sbeffeggiato, ma che in lui aveva ancora un alto significato. Daniele era tutte  queste cose, e per capirlo basta guardarlo in faccia, guardate quella sua faccia pulita, intensa, bella, faccia salentina alla Don Tonino Bello, di Alessano, o all’ Aldo De Donno, di Maglie, ex Capo di Stato Maggiore della Marina, metà santo e metà guerriero, con un  sorriso luminoso, un sorriso pieno di meraviglia, un sorriso buono. E poi lo sguardo profondo, che era un incendio azzurro.  C’era tutto in quello sguardo, il passato e l’avvenire, il cielo e il mare della sua terra d’origine, Lecce, il Salento. E la storia di quell’antico popolo abitava dentro di lui, i messapi, domatori di cavalli, ma anche quieti pastori, ceramisti, contadini, pescatori, poeti.  E guerrieri, anche, ma per necessità, per difendere la propria famiglia, la propria gente, la propria terra. Lui è morto per difendere un ponte, il 24 novembre 2007, il giorno stesso in cui gli italiani riconsegnavano quel ponte, da lui  rimesso a nuovo, alla popolazione martoriata di Kabul. Ecco il vostro ponte, l’ho rifatto nuovo, gli ho ridato un’anima, vedete è come un fiore della notte, è come una stella che si aggiunge e gioisce insieme alle altre che stanno in cielo, è come un papavero rosso fra le spighe.

4. Il terrorista  fra i suoi sogni stellati

Era lì, fra questi suoi sogni, fra ritagli stellati, come quando da ragazzo correva lungo i  muretti a secco della sua terra, e tra gli ulivi e le piante grasse, a inseguire le lucciole nelle sere piene di silenzio circolare, era lì, Daniele, in attesa delle autorità, della folla dei civili, degli altri soldati, quando ha notato il terrorista  che cominciava ad avvicinarsi lungo il greto del fiume, nascondendosi grazie ad una fila di alberi. Aveva l’occhio in direzione del buio, quel povero terrorista, la congiunzione per e nella nullità, ma non lo sapeva, tutto preso dal delirio folle di una vertigine di squilibri senza fine, nelle simmetrie dell’orrore che la guerra reca con sé, diventa banalità quotidiana

«L’obiettivo del terrorista – dirà il Comandante di Italfor – erano proprio i civili, ed i soldati della Nato. Daniele gli è andato incontro, gli ha intimato l’altolà, ma  quello non si è fermato, ha fatto un passo ancora e si è fatto saltare in aria».  E insieme a lui altri nove morti civili, tra cui tre bambini e tre soldati feriti italiani. La strage è avvenuta alle 9.52 locali, le ore  6.22 in Italia, quando la moglie, la figlioletta e la madre venivano svegliate di soprassalto.

5. Non era  un “eroe per caso”

Daniele non  era un eroe per caso, come fu  scritto su qualche giornale; era un eroe per vocazione, oserei dire per destino, fatalità, o ancora di più, per un’idea stessa di eroismo che ci formiamo nella mente e che viene da lontano, dall’antica Grecia di Omero insieme alla musica e alla poesia, al canto caldo che fanno i cieli  rossi dei tramonti pieni di solitudine e malinconia. Era, insomma, un eroe umile, un eroe salentino, pienamente cosciente di quel che faceva e dei rischi che correva, a cui non poteva e non voleva sottrarsi.

Era un uomo gentile, con un cuore dolce, che faceva il soldato.

Disse a suo tempo il Generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo, che Daniele Paladini  “era  morto da Eroe perché si era  sacrificato coscientemente salvando altre persone e combattendo corpo a corpo con un nemico armato. Ma era anche  un  Soldato Nuovo, in grado di osservare l’ambiente, di capire l’avversario e che sceglie coscientemente d’intervenire sul singolo piuttosto che sparare nel mucchio. E per questo la morte di Paladini è ancora più dolorosa e amara. Un Eroe è sempre una persona eccezionale e il vuoto che lascia è incolmabile, ma perdere in Afghanistan un Soldato Nuovo che agisce come un Uomo tra uomini è una vera tragedia. Per tutti”.

Il Salento vomita morti”, diceva Carmelo Bene, e si riferiva non solo ai martiri di Otranto, dimenticati dalla storia dell’Italia ufficiale,  ma a tutti quelli che considerava i martiri di oggi, appunto il forte contingente di salentini che s’era arruolato nella polizia, nei carabinieri, nelle forze armate, salentini che ora si ritrovano ovunque, in terra, nel mare e per i cieli, fratelli di sangue, carne  da macello, ma anche costruttori di meraviglie e di pace.

Il maresciallo Paladini non è la risposta a chi si chiede “che cosa ci stiamo a fare in Afghanistan”, come scrive Vittorio E. Parisi sull’ Avvenire. No, è morto solo per difendere un ponte; perché era il suo dovere, la sua vocazione, il suo destino, su quel ponte ha visto per primo, ha intuito per primo  quel che stava accadendo, ed è andato incontro a quell’attimo definitivo, che è di coraggio, di desiderio, di verità, forse di gloria.

Ma quanto dura – oggi – la gloria?


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