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DANIELE SANTORO – SULLA STRADA PER LEOBSHUTZ– LA VITA FELICE 2012
Come può la parola consegnarci il buio e il dolore della storia, la tragedia immensa e l’atroce violenza preordinata, organizzata ed attuata dei campi di sterminio? Come può testimoniare il male dei carnefici divenuto normalità quotidiana, la riduzione dell’umano, tutto quell’orrore razionalizzato nelle pratiche della morte in nome della follia del dominio e del potere?
All’affermazione di Adorno secondo cui non si può più fare poesia dopo Auschwitz, Edmond Jabès rispose che non solo si può, ma si deve: “Si deve scrivere a partire da questa spaccatura, da questa ferita continuamente riaperta”.
Riconoscere questa ferita significa interrogare l’abisso, mediante un’operazione di conoscenza che è sfida al niente.E forse l’unica via possibile è quella di una scrittura secca e diretta, capace di assalire il lettore con veemenza, di costringerlo ad entrare nelle zone estreme dell’annientamento umano, della perdita di ogni forma di pietà, dello svilimento di tutti i valori. Una scrittura senza orpelli letterari, in grado di farci sentire quel dolore dopo il quale la nostra storia non è stata più la stessa.
Non ha bisogno di tanti aggettivi l’orrore. Non ha bisogno di tante parole. C’è. Ed è come sangue rappreso nei versi, nei nudi fotogrammi della crudeltà e del niente.
Così Daniele Santoro con questa sua raccolta ci lascia la testimonianza di una catastrofe dell’umanità, qualcosa che è accaduto nell’azzeramento dell’essere, in quel deserto della coscienza che è sopruso e cancellazione dell’Altro.Come scrive Giuseppe Conte nella Prefazione, quello di Santoro “ è un libro epico ed etico”, contraddistinto da un linguaggio “piano, colloquiale, documentario”, che ci fa percepire maggiormente l’orrore dell’olocausto.
A confermare come l’atrocità fosse follemente unita alla normalità, si veda ad esempio la passione di Mengele per la musica operistica (“tre battute a sinistra, una battuta a destra/e mai che lo sfinisse il Melodramma”) alternata ai suoi esperimenti genetici. Oppure la meticolosità adoperata dopo le uccisioni nelle camere a gas: “di botto spalancavano i portoni, / ne entravano, tenaglie in mano, scrupolosi / dentisti, svelti parrucchieri pure / perché le loro chiome bisognava farne / calze / di feltro, pantofole per gli equipaggi”. O il “curricolo esemplare” del capo del plotone, che “è tiratore scelto, ha militato nei reparti / mobili di stanza in Lituania, nella Bielorussia, / con lui si può star certi che i massacri / filano lisci che è una meraviglia”. O ancora le regole vigenti e le punizioni esemplari per chi non le rispettava, come nella poesia L’impiccato: “ancora resta lì, ancora non lo scendono tra noi / non sventola nemmeno più il suo orrore, è immobile / talmente è fatto di ghiaccio, è un indice negli occhi / un chiodo, un ago dalla cruna spalancata, un grido”.
Le figure di vittime e carnefici, le immagini agghiaccianti, ci vengono incontro da un inferno che è stato nostro, da una sconfitta dell’uomo. Ma è presente anche, improvvisa, la vicinanza del dolore, la consapevolezza della condizione umana e la ricerca straziante d’altro, fuori dalla prigionia, come nella voce che dice con dolcezza: “so la parola dello sguardo millenaria antica nella sofferenza / e so la breve gioia, l’incanto che si prova se a rapirci, / se a liberarci dall’angoscia è giusto una misura di stupore, / una bellezza che dia senso, amico, come quella sera / che puntavamo al cielo gli occhi e ci sorprese / il pieno delle stelle immenso il firmamento”.
I versi di Daniele Santoro, nella loro fisica immediatezza e cruda realtà, scuotono la nostra coscienza, ci fanno meditare – come scrisse Primo Levi - che “questo è stato”. Essi non possono non interrogare il nostro essere nel mondo e restare come memoria e ammonizione dentro il nostro destino e la nostra storia.
Mauro Germani
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