Danilo Mandolini - A ritroso, versi e prose 2010-1985 - Edizioni L'obliquo, 2013
Con i tempi che corrono, segnati anche in poesia da una fretta eccessiva con conseguente produzione di rachitiche plaquettes, dà una certa soddisfazione tenere tra le mani questo volume di circa 230 pagine, in cui Danilo Mandolini, noto ideatore di Arcipelago Itaca, raccoglie una selezione della sua produzione poetica tra il 1985 e il 2010, ma organizzata appunto, diciamolo subito, a ritroso, in un excursus à rebours a partire dalla produzione più recente fino a quella di esordio, più qualche inedito. Il tutto diviso in nove sezioni, comprendenti anche brani in prosa, e preceduto da una prefazione di Fabio Franzin.
Per quanto sia perfettamente lineare e articolata su un vocabolario tutto sommato essenziale, la poesia di Mandolini reclama una buona dose di attenzione e di compartecipazione al testo da parte del lettore, per alcuni motivi, sostanzialmente legati tra loro:
anche quando è più liricamente distesa, la scrittura di Danilo ha un notevole grado di astrattezza, intendendo con questo la capacità di portare il dettato verso cieli più alti, verso il simbolo e/o la metafora, verso l'interrogazione anche dolente, anche perplessa, sui caratteri universali dell'esistenza. Il lettore in questo senso è chiamato a leggere e ad interpretare non tanto e non solo l'intuizione poetica, la percezione, o magari il guache naturalistico (che qui peraltro non c'è), quanto e soprattutto il pensiero, il porsi anche psichico dell'autore nei confronti della vita. Una poesia perciò classica, nel senso di avulsa da quella contemporaneità parcellizzata che angustia tanti poeti di oggi, e da avvicinare semmai, come nota giustamente Franzin, a uno sguardo "leopardianamente legato alla riflessione";
vi è poi, a mio avviso, un certo decentramento del soggetto (con qualche eccezione nelle poesie più vecchie), nel senso di una collateralità dello sguardo e del suo essere centrifugo, ovvero proiettato spesso verso un metaforico orizzonte lontano che il pensiero tenta di attingere. Tuttavia il soggetto, che nel dibattito attuale - forse un po' artificioso - ha preso il posto dell'io, lirico o non lirico che fosse, il soggetto - dicevo - occupa costantemente la scena con una presenza totale, e lo fa non tanto come semplice presenza/proiezione dell'autore (ovvia) e nemmeno tanto come soggetto inconscio che non può smettere di pensare all'ineluttabile, quanto come soggetto meditante, ovvero padrone ed eroico interprete del senso, per quanto esso possa essere arduo da afferrare per l'uomo;
c'è inoltre una scarsa presenza delle "cose" (a parte forse nelle giovanili), di quella materialità comune che molti lettori trovano confortevole, cose che possano riguardare l'ambiente circostante o i luoghi e gli oggetti del quotidiano. o la collocazione nel tempo o nelle stagioni. E se le "cose" ci sono hanno spesso la funzione delle architetture in un quadro di De Chirico o degli scarsi oggetti in uno di Hopper ("oggetti nascosti alla vista"), dato che non di rado svoltano subito in senso metaforico/simbolico ("Il letto del fiume in secca che si segue / alla caccia del profitto e delle tracce / di quelli di noi che sono già maceria"). Una caratteristica che fa da sponda a quanto detto prima riguardo all'astrattezza, precisando ancora che questo termine non va inteso in senso neutro, avendo non poco a che fare con la qualità indiscutibile delle poesie e dei brani del libro. La correlazione tra ispirazione (termine generico che andrebbe rovesciato) ed espressione procede quindi non per suggestioni o ammicchi ma quasi esclusivamente per mezzo del linguaggio, a cui Mandolini rivolge un rispetto particolare nell'economia di suoi testi;
i quali, aggiungiamo anche questo elemento, hanno una prosodia organizzata per lo più in un discorso ipotattico (che in qualche caso copre l'intero testo), scandito spesso da classici endecasillabi battenti, ospiti fissi del libro, e che contribuisce ad esprimere il senso di un pensiero fluido e articolato (e a volte assertivo) che chiede attivamente al lettore di essere condiviso.
Parlando di questo bel libro, a cui uno scritto come questo non rende certo piena giustizia, non voglio però dare l'impressione di volermi tenere alla distanza nel considerare la poesia di Mandolini anteponendo notazioni che potremmo dire tecniche. In realtà invece a me pare che serva cercare di rendersi conto, magari sbagliando, di certe meccaniche che azionano la sua scrittura e, in definitiva, la sua poetica. Insomma, perché tutto questo, allora? Se il modo (non tanto la forma) risponde al contenuto, come talvolta succede, in questo caso è perché sono le tematiche, rivolte a nodi fondamentalmente trascendentali e universali, a "scegliere" per così dire la sostanza del linguaggio. Mandolini parla in sintesi di vita e morte, di prospettiva nebulosa, di incertezza del futuro (sempre in termini esistenziali, non certo economicisti) ecc. La vita innanzitutto come componente essenziale della morte, come ragione e radice, di una morte nostra e altrui (compresa quella delle morti per guerra, come nella sezione "La linea del fronte"), precedente (come quella del padre nella bella sezione "Radici e rami") e successiva e futura, che è il tema principale della scrittura di Mandolini. Antagonisti che sono indivisibili perché intrinseci e complementari, insieme ad altre coppie che anche Franzin rileva, come quella tra luci ed ombre (un'oscurità assai significante) che baluginano in molte delle poesie presenti nel libro, o la naturale contrapposizione tra chi se ne è andato e il superstite, con l'amarezza vagamente colpevole di chi rimane a custodire qualcosa di altrettanto vago e come fermo nel tempo in un qui e ora sisifeo che tuttavia avrà fine, una specie di memoria volatile e non trasmissibile in eredità se non forse con la parola scritta. Che però non è e non vuole essere né sapienziale né pitica, rimandando fermamente ad un destino già segnato, ma certamente vuole essere aderente quanto più possibile all'ineffabile, se mi si passa l'ossimoro. Quello che il modus di Mandolini cerca, anche con il citato ricorso a stilemi tradizionali, è di dare un ordine (e una direzione, che non sia meramente lineare) al disordine dei cui soffre la vita e la stessa memoria, riempiendo di parole gli interstizi del vuoto. E' forse questa la ragione della scelta di uno stile complessivo che, salvo poche variazioni e cambi di tonalità, si è mantenuto intatto per un venticinquennio, tanto che in realtà è impossibile, anche sulla base di una difficile analisi filologica, assegnare un prima e un dopo ai testi, a parte certamente quelli più giovanili, e questo contribuisce ad una radicata impressione di compattezza stilistica, di una voce che si esprime in sicurezza all'interno di un canone collaudato. Lasciandoci nella ragionevole previsione che dopo essersi guardato indietro, e dentro, Mandolini tornerà a guardare avanti. (g.c.)
da Seconda scansione del "qui"
La strada, andando, taglia uno spazio,
lo spazio, tornando, è comunque lo stesso;
la via si spinge fin dentro la pioggia,
una folla persiste oltre lo sguardo.
Vertigine pura e qui disumana
è fare del volto un altro orizzonte,
costruire lontano dentro il frastuono
l'occhio segreto del mondo di tutti.
da Via privata Gradisca, Milano
1A.
Mio figlio lo sa, sa già che si muore, / che un giorno, di colpo,
tutto si spegne, / che soli si cade dentro una crepa / priva di
fondo e senza una pelle. // In sé ha la paura e non ne parla. //
Lui lo sa, sa già tutto e tanto basta.
da DUE
(l'istante che si vuota)
Inumano è lo spirito che tesse
la veste rifinita di cemento,
le scale che lente fanno un filo
sospeso sul correre degli uomini.
La città è fragile e selvaggia,
costruita sul sangue e sulle vene,
sopra il sogno che porta dalla spiaggia
la vita e la morte della sabbia.
***
La sorpresa persiste nella quiete,
negli abiti che smessi sono altrui,
nella cura che il corpo ha dell'ombra
e che dimora sempre nelle mani.
Il seme dell'angoscia si coltiva
tra gli individui come tra le cose,
lungo il limite che netto ci separa
gli uni e gli altri dal mondo che verrà.
***
(i vivi di qui)
Scendendo le scale si lascia una traccia
che è come la striscia che il capo delinea
nel volgersi svelto contro un bagliore.
[è una pena lunga l'affanno degli anni
quella che solo si sente e nulla ci spiega,
quella che altrove compone deliri e certezze;
che fa gridare ai morti di non essere tali
e ai vivi di qui, di non voler mai morire]
***
[l'oscurità precipita imponendo alla penombra
un passo indietro che è l'acuto di un lamento,
altro dolore che si consuma stancamente
ai margini di una campagna di sterpaglie
dove ricordare è dissipare l'esistenza.
Le orme che si affidano al suolo camminando
attendono impazienti il giungere dei luoghi,
raccontano del disegno di un percorso
che muovendo da un inizio incontro va
alla trepidazione che negli uomini s'avverte
quando il sole si spegne oltre i palazzi]
***
[una vasta foce di suoni e colori si forma
appena oltrepassata la soglia del risveglio.
Le parole sussurrate nel mezzo della folla
che avanza col primo accenno del mattino
raccontano di spaesamenti e sogni andati,
gettano luce e cielo sui tetti delle case
e frammenti di paure dentro il tempo.
Il giorno poi viene a ricoprire la città,
a sottrarre pezzi di distanze tutt'intorno
e a lasciare avanzi sciolti di memorie
per non rivelare adesso cos'è il mondo]
da La disciplina dell'usura
{dentro le tasche sdrucite e capienti
pesano come macigni, i sospetti,
pesano, precipitando numerosi,
mentre si respira imperturbabili
la cenere immemore dei morti,
mentre la disciplina dell'usura,
oltre la finestra dell'irreale,
scorge un arcipelago di prati,
un esteso balcone in fiore che -
al di là del confine disegnato
dalla sopravvivenza del silenzio -
sembra scheggia di futuro ed invece
è immagine riflessa del passato.
da QUATTRO
È, quel grido di immobile nebbia,
l'odore acre di un caldo mattino
che torna risoluto ad ascoltare,
nella sfocata e persa memoria,
l'incessante lamento delle onde
in faccia a tutte le alte pareti
degli sconfinati moli del porto.
Le chiare scie delle navi in partenza
tracciano la rotta al crepuscolo
che avvampa spossato e improvviso
e dove un bagliore muta in ombra,
là, dimora la sferzante carezza
di un altro, dissipato maestrale.
da SEI
I contorni, vagamente mutevoli
e con l'anima brillante del ghiaccio,
della candela che calma si spegne
nell'intimo della sua stessa fiamma
sono dentro i corpi che a turno
sopravvivono e si nascondono
nelle più vaghe oscurità del mondo.
Questi, anche se ricoperti di fango,
si fingono lontani dalle stagioni,
si credono inviolabili e fieri
solo per cercare un'ombra aperta
o per rivedere, nella vertigine
diradata e bassa della bruma,
il graduale apparire di presenze,
il lento avvicinarsi di nuove,
e soltanto di nuove, illusioni.
da OTTO (la stessa misura incolmabile, noi...)
Si muove, si piega e s'alza, la luce,
tra le tante linee della terrazza
che a contarle come fossero dita
sottraggono l'ombra agli oggetti
rimodellando, poi, riproponendo
gli estremi trascorsi dell'essere.
...le labbra screpolate dalle frasi;
una fessura che s'apre di schianto
nel mezzo brillante di un tramonto...
«L'estate è alle porte e mi sembra
d'incontrarla sempre, ogni anno,
nello stesso luogo, lo stesso giorno,
allo stesso, inspiegabile modo».
***
Sapere cosa accadrà agli anni
è un po' come cercare di sapere
cosa succederà a chi sopravvive
inumanamente e suo malgrado.
E come dire che una medaglia
con due facce uguali è trasparente.
Così, per gradi, il bicchiere di vino
si vuota in noi, ritorna a sé
oltrepassando il sottile confine
tra la mano che stringe e non stringe.
***
E si sta aggrappati ad un'attesa
quasi come a cercare una forma,
un modo per asciugare i ricordi
sotto il sole acceso d'agosto.
Transita una nuvola sul viso
e non è grande abbastanza, il viso,
per raccogliere, oltre alla nostra,
anche la bocca socchiusa degli altri.
E gli altri ci guardano in bocca
aspettando un cenno d'affanno
e una prossima, vivida età.
***
Uno specchio graffiato, qui a lato,
e la marea verde e bianca laggiù...
Quella ai margini della tempesta,
quella che si fa grande e impetuosa
e che si leva fino ad incontrare
una sedia a ridosso del tavolo.
Solo da una si chiude la notte
mentre da tutte le altre finestre
si riconosce un deserto; lo stesso
che guarda attraverso le braccia
e che in un'altra parte del mondo
è prato fiorito e rigoglioso.
da Visioni e gesti
4.
Due facciate di uno stabile si fondono in una lunga linea verticale.
Su uno dei due muri c'è scritto Anna ti amo.
Le pendenze delle montagne, contro il cielo, tracciano linee
quasi orizzontali.
Scendere di qui, verso lo spazio imprevisto del giorno, non è
faticoso... Basta contare le scale, ad una ad una, fino a comporre
l'arco irregolare di un passaggio.
da NOVE
[quando l'elastico smetterà di tendersi
potrà rompersi, scagliarsi da una mano all'altra.
Si altererà comunque l'equilibrio che tiene,
legati insieme, la sofferenza e la gioia?
Penderà, improvviso, verso l'una o l'altra parte
l'ago che ricuce gli strappi ed imbastisce
i giorni dimenticati e persi della vita]