Danilo Mandolini, A ritroso, Edizioni L’obliquo
Non molto tempo fa mi è stata proposta la raccolta antologica delle poesie che ho dato alle stampe; ho risposto con un diniego perché sarebbe stato come tagliarmi le ali, mummificare il detto e tacitare quel che resta da dire; a pensarci senza un ego ingombrante che cosa mai mi resterà da dire? Forse solo il dettato muta, non la vocazione, nemmeno la visione.
Leggendo questa corposa auto antologia di Mandolini si prende coscienza della perdita di duttilità che ci regala il farci adulti; gli occhi sanno dove posarsi, le parole dove collocarsi, il ritmo come nascere. Dalla prima all’ultima poesia di Danilo corre un filo che le tiene unite: timbro, contenuto, scrittura, verso,.. Non crediate che sia poesia ripetitiva, anzi; Mandolini sa sempre scovare un interstizio inesplorato dove trarre versi miti e dolenti.
La uniformità della lunghezza, dei perfetti endecasillabi, la ricerca inesausta di segni e significati sempre nuovi ma anche confermati, fanno di questa antologia una summa di buona poesia.
Mandolini non cede mai alla tentazione del sentimentalismo, dell’espressionismo, dell’egotismo: la sua poesia è sobria, chiara, perfettamente centrata sul bersaglio:
“ Inumano è lo spirito che tesse/ la veste rifinita di cemento, / le scale che lente fanno un filo/ sospeso sul correre degli uomini.
La città è fragile e selvaggia,/ costruita sul sangue e sulle vene,/sopra il sogno che porta dalla spiaggia/ la vita e la morte della sabbia.”
Questo è il timbro delle sue poesie, mite appunto, e impietoso nel cernere i rimasugli che gli uomini lasciano dietro di sé. Egli avanza dentro un mondo che ha perduto ogni attrattiva, e neppure ci dice se ne aveva, e coglie minutaglie dell’esistente , umano e non; sentiamo la sua dolenzia per questa ricerca senza meta , senza ormeggi e senza casse del tesoro ma la sorte ( la vita) questa ci donò e la vista possiamo considerarle un dono perché se non l’avessimo attraversata neppure questo sapremmo. Infatti ho detto dolenzia a proposito della sua poesia, non angoscia, non rabbia.
Direi che il tratto che distingue le sue poesie sia la malinconia di chi non ha trovato niente perché ha cercato nel nulla o nel veramente poco, non per sua volontà, né per accidente, ma per sostanza. La vita forse inizia sgombra e vuota, o , al contrario, molto ingombra ( di illusioni, sogni, aspettative, obiettivi,….), ma finisce con lo stesso vuoto e al posto dell’ingombro ci sono rimasugli della pienezza che fu.
L’antologia inizia con questi versi:
“Di notte, ogni notte, è l’inverno.
Un vortice senza inizio né fine.
L’inizio che implode nella fine.”
e termina con questi:
“ ( il mondo di dopo)
“Cosa farai quando non ci sarò più?
Chi ti dirà che dimenticando s’invecchia e che dimenticare,
come ricordare, è necessariamente un istinto?”
Già dai primi versi Mandolini chiudeva il cerchio nella danza attorno al sentimento della fine ( della morte) che vive come l’implosione dell’inizio ( di solito l’inizio viene inteso come un’esplosione) , e termina con lo stesso sentimento della fine a cui aggiunge l’imperscrutabilità e l’inevitabilità del ricordo e della dimenticanza. Attorno a questo vuoto, a questa assenza ruota tutta la poesia di Mandolini, anche quando affronta i temi degli affetti: il padre, il figlio,…gli altri: “il seme dell’angoscia si coltiva/ tra gli individui come tra le cose,”
La consapevolezza di questa separazione acuisce la malinconia; ogni individuo riconosce se stesso e l’altro come monadi in solitaria vagare e nulla consola perché non esiste nulla da consolare e nulla rabbuia perché già tutto è penombra.
Mandolini è originario di Osimo, e pare segua la traccia filosofica del predecessore conterraneo Leopardi , depurato da ogni aspettativa,
Ho tralasciato di dire che una sezione è in forma di prosa poetica, è una dimenticanza di poco conto perché le brevi prose distendono con volute più ampie i temi e le riflessioni delle poesie.
Sebbene scritte con il verso principe dell’endecasillabo , le poesie sono quasi sempre costituite da pochi versi; il dettato del poeta è icastico, preciso, padroneggiato e arriva al bersaglio senza fronzoli, con parole accurate nella scelta ma non letterarie.
Stupisce l’omogeneità dello stile perché le poesie , seppure rivisitate, percorrono un periodo che va dal 1985 al 2010; sono trentacinque anni di scrittura che non ha mutato la percezione di sé e del mondo del poeta. Succede raramente.
Narda Fattori
* * *
Provo a trattenere un po’ del tempo
che sgorgando cancella le parole.
Ora cado, mentre cado, con la pioggia
verso il basso disegnando questo giorno.
«Ricopriti lo sguardo!» fa un passante;
«A cucchiaio le mani sopra gli occhi.
Lascia che il buio sia un po’ luce,
che nulla t’impedisca di morire».
* * *
(i vivi di qui)
Scendendo le scale si lascia una traccia
che è come la striscia che il capo delinea
nel volgersi svelto contro un bagliore.
[è una pena lunga l’affanno degli anni
quella che solo si sente e nulla ci spiega,
quella che altrove compone deliri e certezze;
che fa gridare ai morti di non essere tali
e ai vivi di qui, di non voler mai morire]
* * *
La linea del fronte è un fossato
profondo la statura di un uomo.
Essa oltrepassa, ripida e netta,
lo sguardo stupefatto di adesso,
curva leggera, virando a sinistra,
verso il torrente appena ghiacciato
e dritta si scaglia, rotola incontro
ad un lampo subitaneo che scoppia.
È nel cuore incendiato delle città
che il conflitto spietato continua,
che ambigua si consuma la sfida
nello sforzo reiterato di capire
dove si trova il luogo in cui si perde,
quanto dista quello in cui si vince
e come si raggiunge quest’ultimo
senza profondere fatica alcuna.
* * *
Nulla compete all’essenza del caos
se non il fondo più spesso dell’eco,
la mappa organizzata in crepe
della parete che scricchiola a valle
per volontà appena espressa
del palazzo grigio che la contiene.
Il display segna l’angolo dell’ora,
la nera gabbia lo stringe in uno zero
ed il moto elettrico dei numeri
intrappola l’alta curva dei gesti
nell’essere alternato della luce.
* * *
Non si può per nulla immaginare
che luogo costruiranno le frasi
né sopra quali tetti, per morire,
lo schianto del fulmine terminerà.
S’aspetta un paese che respiri, qui,
che lasci il vapore di un alito
incessantemente impresso e vivo
sui vetri opachi delle vecchie case.
Intanto, dietro al profilo del viso,
i giorni vanno dal chiarore al buio
e dall’ultimo buio dell’alba viene
il buio denso e nero della notte.
* * *
E si sta aggrappati ad un’attesa
quasi come a cercare una forma,
un modo per asciugare i ricordi
sotto il sole acceso d’agosto.
Transita una nuvola sul viso
e non è grande abbastanza, il viso,
per raccogliere, oltre alla nostra,
anche la bocca socchiusa degli altri.
E gli altri ci guardano in bocca
aspettando un cenno d’affanno
e una prossima, vivida età.
* * *
(il mondo di dopo)
«Cosa farai quando non ci sarò più?
Chi ti dirà che dimenticando s’invecchia e che dimenticare, come ricordare, è necessariamente un istinto?»