Segnalazione e Nota dell’Avv. Annamaria Tanzi, Presidente del Comitato scientifico e Coordinatrice della Macrosezione Lavoro dell’Associazione Zero39 all professional service in one network.
Con Sentenza n. 19785 del 17.09.2010, la Suprema Corte, Sez. lavoro, ha statuito che in tema di demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Chiarisce, inoltre, che mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione dell’integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale – da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno – deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamente, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne discende che il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa. Tale danno non si pone, infatti, quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo al lavoratore che denunzi il danno subito di fornire la prova in base alla regola generale di cui all’art. 2697 Cod. civ.
Il caso che ha dato adito alla pronuncia in commento ha come protagonisti alcuni lavoratori i quali con Ricorso al giudice del lavoro di omissis chiedevano la declaratoria di illegittimità del provvedimento che li aveva adibiti a mansioni inferiori ed il conseguente risarcimento del danno, “in misura pari all’importo corrispondente al 50% di una mensilità di retribuzione per ogni mese di illegittima adibizionealle diverse mansioni inferiori”, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria. La domanda veniva accolta e la sentenza veniva sostanzialmente confermata in appello, sia pure con la riduzione dell’importo riconosciuto a titolo di risarcimento del danno (un quarto, anziché il 50% della mensilità). Il datore di lavoro proponeva allora ricorso in cassazione per vari motivi, ed in particolare, con il quarto motivo, lamentava la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2087 e 2103 Cod. civ., nonché omessa, insifficiente e contraddittoria motivazione, con riferimento alla prova ed alla quantificazione del danno da dequalificazione”.
La Cassazione ha accolto il ricorso con riferimento al motivo ora indicato. Dopo aver richiamato il proprio consolidato orientamento in tema di onere di allegazione e della prova con riferimento al danno, professionale, biologico ed esistenziale, da demansionamento e dequalificazione, la Suprema Corte ha infatti ritenuto che il giudice dell’appello si fosse limitato a considerare questo danno una sorta di fatto notorio, e in quanto tale non bisognoso di allegazioni specifiche né di prova, in quanto genericamente ricollegabile “alla serie di risultati negativi rappresentati dalla lesione della professionalità e della dignità umana, dal danno all’immagine e dal discredito nell’ambiente di lavoro, dal danno alla carriera, da difficoltà di ricollocare all’esterno la propria professionalità”. Il giudice dell’appello in tal modo si sarebbe solo apparentemente adeguato all’insegnamento della Cassazione, fornendo in realtà solo “indicazioni generiche, scollegate dalla posizione dei singoli lavoratori. Ne discende che il diritto al risarcimento rionosciuto dal giudice di appello, finisce col basarsi su un semplice automatismo, piuttosto che su una indagine concreta volta ad acclarare l’effettiva sussistenza di un danno”.
Teramo, 14 Febbraio 2011 Avv. Annamaria Tanzi
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