Dante e Arjuna: azione o contemplazione?

Da Graziano

Ascoltando la conferenza di Marco Ferrini a Ravenna del 25 settembre 2010, ho riflettuto su quanto, nell’uomo medio contemporaneo siano bizzarre le idee di azione contemplazione.
E tra questi mi ci metto anch’io.
Parlando dei due eroi della Bhagavad Gita e della Commedia, Arjuna e Dante, subito appaiono evidenti le diversità di contesto, linguaggio e simbologia, ma è anche evidente quanto entrambi siano completamente immersi nell’aspetto della Divinità e contemporaneamente nelle cose del mondo. Il primo è un principe in guerra contro i cugini usurpatori, il secondo è un uomo che ricopre una delle massime cariche politiche nella Firenze della fine del duecento e che sta combattendo in prima persona contro il potere temporale di una Chiesa oppressiva ed oscurantista.
Sono uomini della tradizione, religiosi, con forti principi morali che si ritrovano (nel senso di ri-trovarsi, trovare il proprio sé) in seguito ad una profonda crisi: l’uno deve uccidere persone che gli sono state care, l’altro passerà gli ultimi vent’anni della sua vita in esilio con una condanna tanto infamante quanto falsa.
Ambedue vivono con gli occhi rivolti verso il cielo, ma pongono un’attenzione vivissima per le cose di terra e soprattutto sono degli innovatori sia nell’ambito religioso che in quello civile.
C’è infatti nei due eroi un’acuta sensibilità per la libertà individuale e la giustizia sociale che, interpretata secondo i modelli del loro contesto storico e geografico,  ne definiscono un profilo alto anche nell’ambito sociale e in quello morale oltre che religioso.
Il messaggio mi pare chiaro: chi si muove sul sentiero della ricerca spirituale deve uscire dalla selva oscura dantesca e dai ragionamenti depressivi di Arjuna. Si tratta di affrontare una crisi esistenziale dove c’è da superare degli ostacoli che sono sempre gli stessi, che si parli della Firenze pre-umanista o del campo di battaglia di Kurukshetra.
Il passaggio decisivo nella risoluzione della crisi consiste dunque nel desiderio di acquisire la conoscenza per impostare l’azione perfetta. Ma è attraverso l’azione che infine si scioglie la criticità. Per acquisire questa conoscenza è necessario un viaggio che ci faccia conoscere il male dentro di noi, Jung usa il termine ombra, solo dopo si può passare alla visione del bene, è un processo alchemico di purificazione che attraversa la carne e lo spirito e che prevede un ospite indesiderato, il dolore.
Dopo questo viaggio però, il termine contemplazione esprime tutto il suo valore: contemplare e azione, ovvero, attrarre qualcosa nel proprio orizzonte e agire. Senza l’azione non c’è completezza né nello spirito né nella carne.
E allora i santi che si ritirano nell’appartato silenzio ascetico dei loro eremi?
Pensiamoci.


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