Dante Maffìa. Io. Poema totale della dissolvenza. Una nota di Giorgio Linguaglossa

Creato il 09 luglio 2013 da Emilia48

Dante Maffìa ha appena pubblicato per i tipi di EdiLet  un testo monumentale, Io. Poema totale della dissolvenza.  Qui Un poema dunque, di circa 30.000 versi e 712 pagine. Sufficiente a collocare il nome di Maffìa, il poeta italiano vivente davvero più originale e rilevante, tra i grandi della letteratura contemporanea. Un testo poetico che non ha eguali dal Novecento ad oggi, non solo in Italia.  E monumentale non per il numero di versi, o per quello delle pagine, o perché si tratta di un poema (chi ha la forza – in tutti i sensi – di scrivere più un poema oggi?) ma davvero perché questo è un monumentum, uno mnomeìon di questa epoca, l’avvolge e la contiene nella sua totalità.

Ospito, come guida per il lettore, un testo limpidissimo e folgorante di Giorgio Linguaglossa, critico militante e poeta egli stesso, che conosce come nessuno l’opera di Maffìa ed è uno strumento prezioso per avvicinarsi a quest’opera.

F.D.

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Giorgio Linguaglossa

L’UNIVERSO ATOPICO DELLA DISSOLVENZA

 

«Fair is foul and foul is fair: il bello è brutto, il brutto è bello, cantano le tre streghe all’inizio del Macbeth. È il ritornello che governa gli eventi. Sono le parole che accompagnano Macbeth al potere e lo trascinano alla rovina. La tragedia del potere e della follia, dove «la vita non è che un’ombra in cammino; un povero attore che si agita e pavoneggia per un’ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. Il racconto raccontato da un idiota, pieno di strepito e furore, ma che non significa niente». La loro eco e la loro danza macabra arrivano fino a noi. Nell’epoca della borghesia, come spiegano ancora efficacemente Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, tutto è volatile, istantaneo e rapidissimo, sottoposto a un inarrestabile processo di rivoluzionamento. Le vecchie idee sono state disintegrate in migliaia di frammenti, le idee nuove diventano vecchie prima ancora di fissarsi e consolidarsi. Ogni cosa sacra è profanata e le cose profane vengono consacrate. La conoscenza si certifica con la falsificazione (Popper)», scrive Rinaldo Caddeo in un recente articolo riproposto sul blog moltinpoesia.wordpress.com.

Con questo poema di Dante Maffìa entriamo nell’età della Crisi irreversibile della forma-poesia, nell’epoca della recessione spirituale, politica e stilistica del Dopo il Moderno, della «dissolvenza» incessante e progressiva, della transvalutazione, del mondo come volontà e rappresentazione, della volontà di potenza dispiegata del capitalismo e della crisi di un Modello unico di rappresentazione che ha la «fede» per antonomasia alla base del suo progetto totale di dominio sugli uomini: il capitalismo con la sua religione laica della fede come «credito» in Altro e col suo potere di trasformare il Tutto in Altro, secondo una deformazione immonda e turpe del pensiero teologico secolarizzato. «Tutti i mondi possibili esistono davvero», scrive un filosofo contemporaneo, David Lewis; nulla svanisce, tutto si trasforma: questa è la natura per Linneo; nulla  si trasforma e tutto svanisce: questo è il principio dimostrativo del cosmo di Maffìa, al contrario della legge base della relatività di Einstein: nulla si crea e nulla si distrugge: tutto resta sempre eguale a se stesso: l’eterno ritorno ha un cuore antico che conia la sempre uguale legge della «dissolvenza». Il fondamento della realtà è la «dissolvenza» dell’«io» e del «cosmo», e la poiesis non è un arbitro in posizione di terzietà in questo processo ma è un «ente» in dissoluzione come tutti gli altri «enti»: la forma-poesia precipita in «dissolvenza»  anch’essa, come tutte le forme ereditate dal Novecento: quello che resta è una forma-fluviale, una cascata Niagara, una forma-valanga che travolge lungo il suo percorso ogni cosa che trova; una forma-detrito che si nutre di detriti; una forma-processo in continuo divenire, una formidabile transvalutazione di tutti gli «enti», una metamorfosi perpetua dell’«ente» per eccellenza: la «parola»: la sua profonda degenerazione, la sua infingardaggine, la falsa coscienza della «parola», di quella di tutti i giorni e di quella che impiega il poeta; parola politica anch’essa, e quindi figurata (e sfigurata), infingarda e deforme. Ecco la ragione dei «bruttismi», dei «cacofonismi», delle parole-detrito, delle parole telefonate: i «telefonismi», delle parole dissimmetriche: i «dissimmetrismi», delle parole anomiche: gli «anomismi», i «distopismi», delle parole distopiche; i «disformismi», quelle parole che non corrispondono più che a dei concetti-stereotipi, falsificati anch’essi dalla procedura scientifica della verificazione: il Vuoto, il Nulla, il Sempre Eguale, l’Eterno Ritorno («tutto cadrà nel vuoto», «balbuzie della dissolvenza»). C’è un ritornello che ritorna ab aeterno e ab initio in questo mare primordiale che è questo smisurato poema: l’«io» che ruota (e si svuota) attorno all’apice di un cono rovesciato come una trottola lanciata in una folle corsa-rotazione in un universo indirezionale e atopico. Transvalutazione e degenerazione della materia, de-materializzazione della materia per eccellenza qual è la «parola» poetica (e non), la sua falsificazione; transvalutazione del movimento in dialettica dell’immobilità del movimento per eccellenza qual è la Storia degli uomini, un tutt’uno che diventa «dissolvenza» della «parola» e della Storia. Etica, estetica, scienza, principi morali, giudizi a priori, giudizi a posteriori, gusti, categorie, usi e costumi, fedi  scompaiono nel buco super massiccio della «dissolvenza»; vengono risucchiati, emulsionati in un maelstrom dove vengono risputati fuori, con segno negativo, in un cupio dissolvi, vendette e buoni propositi, olocausti e misericordia, azioni positive e azioni immonde, tutto viene commutato in segno negativo: incattiviti, deformati, abbrutiti, gobbi, deformi, sono gli specchi dell’«io» che pullulano in questa «totale dissolvenza». Anche la poiesis è sottoposta alla legge paradossale della «dissolvenza», dove ogni mutazione segna una de-generazione secondo una forma di pensiero gnostico e adialettico. Anche la poiesis è un «fare» ma in negativo: è esplosione, implosione, erosione, deformazione soggetta alla legge della morte termica con la quale finirà anche il nostro universo, salendo e ricadendo da nuvole di polvere cosmica; il discorso poetico di Maffìa si nutre della civiltà del Novecento come un buco supermassiccio si nutre della polvere cosmica. Alla fine, anche la «parola» maffiana si raffredderà e si disperderà nelle infinite periferie del megastore del nostro universo in vetrina e in vendita, anzi, in svendita (in tempi di recessione) qual è il poema della «dissolvenza». Una immensa, colossale apocatastasi. Anche la poiesis è diventata un’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa, nasce dal fuoco eterno della «dissolvenza» e ritorna nel mare magnum della «dissolvenza». È un Eterno Ritorno, un eterno girare a vuoto della «trottola» dell’«io». La polvere cosmica nasce e muore, si spegne e si riaccende, viene raccolta da una parte e trasportata da un’altra da venti solari e da energie oscure come il turbine infernale entro il quale stanno i lussuriosi della Commedia dantesca. La legge di gravitazione universale di Newton, che faceva danzare elegantemente, come in un minuetto, tutti i corpi celesti e terrestri tra loro, è diventata una spiegazione infantile delle universe cose. La posta in gioco è ben altra: c’è da prima dell’inizio un Brama, un super spazio a dieci dimensioni più il Tempo dal quale si diramano gli universi: entrano in gioco le «particelle maledette», le «particelle di dio», movimenti, vibrazioni di energia cosmica, deformazioni dello spazio-tempo, deformazioni dell’energia e della luce, spostamenti nel tempo/spazio in altro tempo e in altro spazio. Dio non è mai morto: non è mai nato; è un universo ateo e bastardo quello di Maffìa, sottoposto alla legislazione della «dissolvenza», ultimo baluardo dell’«io» che stenta ad accettare il proprio declassamento a «io» infingardo e deturpato, a falso «io». Per Maffìa non si può non vivere che nell’ossimoro permanente (Montale) che è verificato dalla presenza della «parola della poesia», il peggior tradimento (la parola-usura); l’«io» è usuraio che impiega le parole come il capitale contante che presta a strozzo; la «parola poetica» è diventata una mostruosa deformazione e denegazione di una falsa parola divina che non è mai stata pronunciata: non esistono più né bene né male, né follia né ragione, né bello né brutto, tutto è volontà di potenza che sfocerà nella «dissolvenza»: Dante, Shakespeare, Galilei, papa Francesco, comunismo, capitalismo, dollaro, euro, Europa, Asia, America, Amore…

E = mc2 massa ed energia si equivalgono, sono le due parti di una semplicissima equazione. Anche l’universo si può indicare come la prima parte di una semplicissima equazione: xxx = yyy; dall’altra parte c’è l’altra metà dell’equazione della «dissolvenza» universale. La  poiesis è sottoposta alla medesima legge della «dissolvenza» che governa l’universo: la fisica dei quanti, la materia e l’antimateria, l’energia visibile e quella invisibile, la materia oscura e quella visibile dove siamo noi in un puntino infinitesimale dell’universo, Auschwitz e l’Olocausto, le bombe di Hiroshima e Nagasaki che hanno raso a suolo in un istante due città, che hanno vaporizzato decine di migliaia di uomini e hanno liquefatto per sempre ogni solidità della «materia». Non c’è più differenza tra Terra e Cielo. In cielo non cantano né gli angeli né i dèmoni ma tutto si muove verso l’esterno, si allontana dal centro in un vorticoso movimento a velocità allucinante. Al centro della nostra galassia (di cui noi e il nostro sole abitiamo un angolino periferico), come probabilmente al centro di tutte le altre migliaia di miliardi di galassie, c’è un buco nero supermassiccio che divora e ingurgita materia, luce, spazio e tempo, fa ruotare stelle e pianeti intorno a sé come il buco di scarico di un lavandino fa girare in un risucchio vorticoso l’acqua che sprofonda. Il cosmo in cui viviamo non è più abitato, protetto e nobilitato da serafini, cherubini, troni e dominazioni, ma è una cosa chiamata inflazione e noi esistiamo grazie a questa inflazione: l’ossimoro grottesco e gaglioffo della nostra nascita e della nostra vita senza senso; o meglio, con una pluralità di sensi secondo cui ciascuno adotta il senso ciò che più gli aggrada, secondo la legge universale della «dissolvenza».

Secondo una concezione recentissima, in un miliardesimo di secondo l’Universo è sbucato fuori da un altro universo e si è espanso alle attuali dimensioni; gli scienziati  hanno chiamato questo processo inflazione, una corsa accelerata della materia dello spazio e del tempo verso la periferia dell’universo. L’empireo di platonica memoria, è stato sostituito dal frusciante rottamaio di questa mega deflagrazione che si consuma nel silenzio cosmico: quella ondulazione magnetica che è la zattera che ci riporterà indietro nell’altro universo che ci ha preceduti, simile a quello scricchiolio o miagolio che sentiamo quando si passa da un canale a un altro della radio, il rumore ondulatorio di fondo, la debolissima traccia magnetica della radiazione sottostante dell’universo che ci ha preceduti. Impero della degenerazione e della «dissolvenza», dell’ossimoro, della cacofonia, del miagolio di fondo e della risonanza della inflazione di questo universo-magma dell’«io» di Maffìa, definisce al meglio la situazione in cui ci troviamo: di desertificazione spirituale e di nascita di falsi fondamentalismi, degli dèi falsi e bugiardi. Non saprei in quale altro modo descrivere questo smisurato poema dell’inflazione permanente, dove tutto si allontana da tutto, dove non c’è più un centro e l’«io» è deflagrato in una miriade di puntini luminosi come le luminarie dei fuochi d’artificio che si spengono nel mentre che si raffreddano nella loro dispersione nello spazio infinito.

Il demone della poesia come poeticus furor, poetic frenzy, ultima zattera alla deriva in questo processo inflattivo dell’universo: continua eruzione di fuoco, sabbia, acqua, veleno, gas cosmici; funebre immobilità del Mare della Tranquillità della Luna, frastornante marasma di quella polvere cosmica che sono gli uomini sul pianeta Terra scandito da un rullo continuo di tamburi come la superficie in tempesta perenne del pianeta di Saturno, Enceladon, frusciante come un incendio o stridente come il requiem di Penderecki, divagante e sussultorio come un concerto di Shostakovich, allucinato come un ready-made di  Duchamp, perturbante come un quadro con tritoni lussuriosi di Böcklin o allucinato come gli sgorbi contadini di Bosch o angoscioso e feroce come un dripping di Pollock, lucido e straniante come le bottiglie di Morandi. Poema straniante e drammatico, abitato dalla serenità della tragica «dissolvenza» di ogni cosa, inquietante come le piazze d’Italia di De Chirico. Il poema di Maffìa è duro come meteorite, e molle come calcestruzzo prima di rattrappirsi, candido come ghiaccio, fragile come vetro di Murano, o sughero che galleggia, feroce come l’artiglio di una tigre, idillica come una coppia di daini che bruca l’erba di una montagna; la parola assenza che fa rima con dissolvenza; fiore, la rima più falsa, con cuore, perché non c’è più una rima felice e la rima è già divenuta la tomba della gioia delle vocali.

La poesia nasce e muore nel linguaggio e con il linguaggio, non può risalire la china del «niente». Non c’è più un senso sotto le cose e le parole; se si scava dentro le parole e dentro le cose troveremo il «vuoto», un nulla fatto di cose senza senso. Ed è inutile cercare un senso, una direzione di marcia: né un senso, né una profondità, né un non-senso nel senso che sia un altro senso del non-senso, o del senso che ci consegni un altro sguardo; non c’è  altro senso che non sia la medesima cosa del non-senso in cui ci troviamo da sempre. Nessun senso, né recondito, estraneo a se stesso, né paradossale, è un senso che equivale a miliardi di altri sensi che nascono e muoiono nelle discariche della catastrofe permanente della «dissolvenza» in cui e per cui non possiamo recuperare alcun senso: non c’è alcuna bellezza nella natura, né nell’arte, nell’amore: falsità, fatuità che gli uomini continuano ad aggiudicarsi a vicenda, secondo falsa coscienza e impero del male.

(C)by Giorgio Linguaglossa 2013. RIPRODUZIONE RISERVATA



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