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Questa lunghissima premessa per introdurre l'argomento del post di oggi. Pochi giorni dopo l'altro mio post sul western-gotico di Antonio Margheriti, eccomi ancora qui a parlare del regista romano e del suo capolavoro assoluto: Danza Macabra.
Si tratta di uno dei più riusciti esempi di cinema gotico che, al pari de La Maschera del Demonio di Mario Bava, può vantare nel cast la presenza della tenebrosa Barbara Steele, regina indiscussa dell’horror anni Sessanta. Eccezionale la fotografia, ricca di chiaroscuri esaltati dalle riprese eseguite in un rigoroso bianco e nero che contribuisce non poco alla riuscita dell’affresco nel suo insieme.
Girato in sole due settimane, con mezzi artigianali e un budget ridicolo, con Margheriti che si ritrovò un po’ per caso dietro la macchina da presa. Per Danza Macabra, infatti, era già stato incaricato della regia Sergio Corbucci, il quale in seguito, a causa di precedenti impegni, dovette suo malgrado rinunciarvi. Fu un incredibile colpo fortuna per Margheriti, che si ritrovò tra le mani la sceneggiatura di una pellicola che sarebbe un giorno diventata immortale.
Il sipario si apre all’interno di una fumosa locanda londinese della prima metà dell’Ottocento, dove troviamo Alan Foster, un giornalista giunto sul luogo per intervistare il maestro del brivido Edgar Allan Poe. La discussione si sposta quasi immediatamente sullo spiritismo e, mostratosi scettico, Foster viene sfidato da Lord Blackwood, amico dello scrittore, a trascorrere una notte nel suo castello, disabitato da anni a causa di presenze spettrali che non lasciano scampo agli inopportuni visitatori.
Nonostante i ripetuti avvertimenti Foster raccoglie la sfida e, una volta entrato nel castello, ovviamente invaso da polvere e ragnatele, farà la conoscenza di Elisabeth (Barbara Steele), sorella di Lord Blackwood, e via via di molti altri misteriosi abitanti. Credo sia evidente fin d’ora, anche per chi non ha visto il film, che gli abitanti del castello altro non sono che spettri. I fantasmi senza pace di coloro che tra quelle mura trovarono la morte nel corso dei secoli. L’unico che, almeno inizialmente, sembra non rendersene conto è lo stesso Foster il quale, come da manuale del perfetto autolesionista, si innamora perdutamente della bella e giovane Elisabeth. La danza macabra ha inizio, e Foster si ritroverà a dover fare i conti con i propri personali fantasmi, fino al tragico ed inevitabile finale. Troppo tardi infatti il nostro protagonista si renderà conto che per risorgere dal mondo dei morti Elizabeth e gli altri fantasmi hanno bisogno del suo sacrificio.
Mettetevi comodi sulla vostre poltrone e lasciatevi catturare dalle avvolgenti atmosfere di Danza Macabra. Svuotate la mente e godetevi il colloquio iniziale tra gli ospiti della taverna. Liberatevi dei luoghi comuni e non fate troppo caso alla sceneggiatura. Pensate che siamo nel 1964: non sono i dialoghi che potranno sorprendervi: sono le immagini, evocative e magnetiche, che vi introdurranno nella danza. L’ingresso di Foster nella magione di Lord Blackwood è, a mio parere, il momento più alto dell’opera. Egli si guarda attorno, studia l’arredamento che lo circonda, tutto è tetro e opprimente. Il luogo sembra abbandonato da secoli ma nonostante ciò si avverte nell’aria qualcosa di strano. I minuti passano e la sensazione di disagio permane. Si fa fatica a distogliere lo sguardo dai particolari, si cerca nervosamente un’ombra all’orizzonte che ancora non arriva. Margheriti è molto bravo a tenere alta la tensione e a prolungare fino all’inverosimile questo momento. Non è possibile staccarsi dalle immagini. Tutto è incredibilmente magico. Un ritratto di donna alla parete attira improvvisamente l’attenzione del protagonista. Anche noi, sulle nostre comode poltrone, non possiamo esimerci dal notarne l’eterea bellezza. Ci sorprendiamo a chiederci se possa davvero esistere una fanciulla con un viso così angelico e al tempo stesso inquietante. Un orologio a pendolo è il primo segnale che sta per succedere qualcosa che farà deviare bruscamente il film su un altro binario. La fanciulla del ritratto esiste veramente e si materializza in Julia, alla quale dona il volto la deliziosa attrice norvegese Margaret Robsham, sfortunatamente qui nel suo unico ruolo di rilievo (se si eccettua The Passionate Demons, film norvegese del 1961 inedito in Italia, nel quale la Robsham esibì, una delle prime in assoluto, il proprio seno nudo alla macchina da presa). Tutto il resto è una pura danza macabra. Se vi siete lasciati affondare nella poltrona dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, probabilmente avrete qualche difficoltà a portare avanti la visione senza tentennamenti. La mia impressione generale è che vi siano da qui in avanti dei passaggi che si sarebbero potuti girare diversamente, accorciando e rimontando. Purtroppo non saprei descrivere meglio il mio pensiero. Come detto la mia è solo una sensazione. Se, nonostante i miei avvertimenti, vi sarete comunque distratti dalla visione, cercate di rientrare rapidamente in rotta per godervi il finale. La scena della fuga nel parco, con tanto di alberi che sembrano prendere vita, è uno dei momenti più carichi di tensione in assoluto.
Purtroppo Danza Macabra non ebbe grande successo in occasione della sua uscita nelle sale. Immagino che il motivo sia da attribuirsi ai baci saffici tra la Robsham e la Steele, forse un po’ troppo audaci per l’epoca. Fatto sta che Danza Macabra scomparve ben presto dalla circolazione e, per un lungo periodo, venne dimenticato.
Qualche anno dopo quindi Antonio Margheriti, caso raro se non unico nella storia del cinema, decise di rifare se stesso ed ecco che prese forma il remake. Questa volta a colori. Il titolo scelto per la riproposizione, a mio parere scelta poco fortunata rispetto all’originale, fu “Nella stretta morsa del ragno” (provvisoriamente indicato come "E venne l'alba... ma tinta di rosso", titolo abbandonato ben presto nel corso della lavorazione). Ma sarà proprio la scelta del colore una delle cause che decreteranno la sconfitta del remake nei confronti dell’originale, sia per quanto riguarda il risultato artistico delle due opere, sia per quanto riguarda la loro capacità di suggestionare (quello che chiamerei, alla mia maniera, il loro “quoziente gotico”). Un’altra importante ragione fu l’assenza di Barbara Steele: nessuna attrice, per quanto bella e brava, avrebbe potuto reggerne il confronto. Nulla poté Klaus Kinski, che nel remake abbiamo visto assumere le sembianze di un ispirato Edgar Allan Poe. Un Kinski memorabile, ma forse un po’ fuori luogo: non è proprio quella la faccia con cui mi immagino un Poe. E’ strano tuttavia come due film praticamente identici possano lasciare sensazioni differenti. I due film sono effettivamente uguali in tutto e per tutto. Margheriti non ebbe il tempo di mettere le mani sulla sceneggiatura, per cui tutto, ma proprio tutto, è identico. Chi come me ha visto i due film a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro se ne sarà senz’altro reso conto: è stato molto facile riconoscere o anticipare le battute, considerato che le avevo appena sentite. Oggi vale comunque la pena di vederli entrambi. L’uno e l’altro hanno i loro rispettivi punti di forza e sarebbe un peccato non coglierli tutti.
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