Recensione di Chiara Macchiarulo
Quello dell’amore è un percorso difficile. Un percorso che inizia con le farfalle nello stomaco e che può finire con l’acido dei succhi gastrici a digerire le stesse farfalle, dopo averle uccise.
Ce l’hanno venduta fin da piccole la favola del principe azzurro: quello perfetto che non ci avrebbe mai fatto soffrire, quello che ci avrebbe messe al centro del mondo e sarebbe stato anche più perfetto del nostro papà. Poi siamo cresciute, abbiamo conosciuto qualcuno, ci siamo innamorate, inevitabilmente siamo rimaste deluse. Perché il principe azzurro ci ha fatto soffrire. Ci ha fatto soffrire perché abbiamo visto che è un uomo, non un principe. Che si arrabbia, arriva in ritardo, si dimentica le cose, russa. Ma quale di questi peccati vi sembra mortale?
Poi siamo cresciute ancora, e abbiamo capito che anche noi ci arrabbiamo, arriviamo in ritardo, ci dimentichiamo le cose, e forse persino russiamo. Ma per quale di questi peccati abbiamo davvero pensato di chiedere scusa?
Dopo aver capito che, semplicemente, anche noi siamo umane, ci è sembrato improvvisamente tutto più facile, anche se non sempre siamo state capaci di ricordarcelo.
Probabilmente Danzando su vetri rotti dell’esordiente Ka Hancock è un lungo promemoria dell’umanità e quindi dell’imperfezione dell’amore, l’amore vissuto con tutte le sue complicazioni e sfumature.
E finché si tratta di peccati umanissimi la strada non sembra neanche poi tanto ripida né accidentata. Se invece nel legame d’amore si insinua il filo della malattia, fisica e/o mentale, i concetti di giusto/sbagliato, buono/cattivo, opportuno/fuori luogo tendono a sfumare l’uno nell’altro rendendo estremamente più spinosa la gestione dei normali spigoli propri di tutti gli esseri umani.
Lucy Houston e Mickey Chandler sono una coppia all’apparenza come tante: sono giovani, innamorati, si sposano e si scambiano promesse di amore eterno. Tutto sarebbe esattamente come deve essere, se non fosse che Mickey è affetto da disturbo bipolare e Lucy ha una lunga storia familiare di cancro al seno. Il dolore, insomma, sembra destinato a essere compagno fedele di questo amore.
«Il medico di Mickey mi guardò per qualche istante poi fece un respiro profondo. “Lucy, ogni matrimonio è una danza; a volte complicata, a volte deliziosa, il più delle volte senza eventi rilevanti. Ma con Mickey ci saranno momenti in cui la vostra danza sarà sui vetri rotti. Sarà dolorosa. O fuggirete da questo dolore o vi terrete ancora più stretti e danzerete su questi vetri fino a un punto meno accidentato.”»
Raccontata da Lucy in prima persona, la storia di questa danza dolorosa ha come spettatori e comprimari le sorelle di Lucy, Lily e Priscilla, e tutti gli abitanti della piccola comunità in cui vive la coppia, una sorta di famiglia molto allargata. In queste pagine la famiglia e la comunità paiono costituire una rete di sicurezza senza la quale il dispiegarsi della vita individuale non sembra possibile. Una visione senza dubbio rassicurante, ma a tratti anche un po’ soffocante.
La stessa scelta del punto di vista di Lucy sembra confermare il rischio di scivolare nel trionfo dei buoni sentimenti a tutti i costi: Lucy non si arrabbia mai, cerca sempre una soluzione per accontentare tutti, non protesta ma accetta il suo destino a testa bassa. Il suo personaggio, con quel modo di affrontare il dolore, rischia di apparire tanto forte quanto semplice, o forse persino piatto. Questo fatto si riflette nella prosa di Hancock, perlopiù paratattica, a tratti quasi ingenua, quasi fosse un’emanazione diretta della scarsa complessità del personaggio.
Tale rischio dev’essere stato percepito dalla stessa autrice, che infatti a un certo punto, nel corso di una discussione tra le sorelle, fa dire a Lily:
«“Come fai a essere così? Come fai a restare così buona e gentile? C’è qualcosa che non va in te, Lucy, e ti detesto sul serio per questo.” Mi sono messa a ridere sommessamente. “Non è divertente, Lucy. Voglio che ti arrabbi con me. Sono stata orribile, ma tu non litighi mai. Ti svegli, e Mickey ha combinato qualcosa che ti incasina la vita, e non ti lamenti mai. Mamma muore tra le tue braccia quando tu avevi più bisogno di lei, ti succedono cose tremende e tu semplicemente ti adatti! Io rovino la tua bella notizia, e tu non ti arrabbi. Cosa c’è che non va in te?”»
Al contrario, Mickey sembra il personaggio più complesso e realistico: non per la malattia, ma per l’evoluzione che ha nel corso del romanzo. L’autrice con lui sventa del tutto il rischio di farne una figurina bidimensionale definita soltanto dalla sua condizione di bipolarità e ce ne fornisce una caratterizzazione realmente umana e complessa al di là del suo male, pur mantenendo una prosa forse eccessivamente semplice. Probabilmente Hancock deve ancora trovare la sua reale voce, ma supponiamo che sia sulla strada giusta.
Ci vuole uno spirito saldo per entrare tra le pagine di questo libro, soprattutto se si è innamorati. E se ancora non lo si è, si può sfruttarlo come un’occasione per rendersi conto di quanto siamo umani, di quanto siamo irrimediabilmente condannati all’errore e di quanto sia importante stringersi per continuare a danzare insieme fino ad arrivare a una superficie meno accidentata.
Notizie sull’autrice
Ka Hancock è nata e cresciuta nello Utah. È laureata in scienze infermieristiche e ha una passione per la psichiatria. Basandosi su un’esperienza personale ha scritto Danzando sui vetri rotti, il suo esordio nel mondo della scrittura.
Ka Hancock – Danzando sui vetri rotti
Traduzione di Marina Timperi
Leggereditore, 2012
pp.448, 14,00 euro