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Lo splendido “Dark Shadows” è come una sontuosa torta di compleanno che Tim Burton ha preparato per se stesso: farcita con tutte le sue tematiche e le sue ossessioni, guarnita con tutti i suoi stilemi figurativi - e (slurp!) tutta per lui. Certo, in America la serie televisiva degli anni '70 “Dark Shadows”, definita una soap opera horror, è tutt'altro che sconosciuta (non come in Italia, dove la serie originale non fu trasmessa, il suo tardo remake con Barbara Steele durò poco - come del resto negli States - e i due film uscirono come opere isolate). In America “Dark Shadows” è quasi un cult. Ciò nonostante, resta l'impressione che Tim Burton abbia costruito tutto il film non solo come omaggio a una passione adolescenziale (sua e del suo alter ego Johnny Depp) ma come monumento a se stesso. Non c'è niente in ciò di egoistico o sconveniente. Non diceva forse Orson Welles che Hollywood è il più bel trenino giocattolo che un bambino possa desiderare?
C'è un tocco di sublime manierismo in “Dark Shadows”. Tutto l'universo del regista si dà appuntamento per questo retelling della saga di Barnabas Collins, vampiro che nel 1972 viene liberato da una prigionia nella bara durata duecento anni, e si adopera (facendosi passare per un improbabile parente inglese) per rialzare le sorti della decaduta famiglia Collins - ma si ritrova in lotta contro la sua antica amante, la strega immortale Angelique (Eva Green). Non fa meraviglia che Barnabas Collins rientri al cento per cento nella famiglia dei mostri burtoniani: figure isolate, sognanti, timide, ma non innocue; sono feroci e vulnerabili insieme, come Sweeney Todd.
Barnabas si trova spiazzato fra due mondi: divenuto vampiro a causa della maledizione della strega, vive a mezza strada tra una condizione che odia, la cui sete di sangue gli fa compiere truculente stragi, e il piano dell'umanità, che gli detta la sua gentilezza innata e la sua timida incertezza nel corteggiamento della donna amata, Victoria. Ma Barnabas vive su un doppio piano anche sul livello temporale e culturale: un uomo del Settecento scaraventato dell'America degli anni '70. E' centrale nel cinema di Burton il concetto di trespassing: varco di un limite (fra l'alto e il basso, l'interno e l'esterno, la vita e la morte), rovesciamento e inversione delle dimensioni (vedi qui per esempio il fantasma della donna annegata che “affonda” graziosamente nel pavimento del salone, la cui decorazione richiama le onde marine).
“Dark Shadows” rovescia “Beetlejuice”: mentre là v'era un'alleanza fra la figlia ribelle e gli spettri contro la famiglia repressiva, qui troviamo l'alleanza della capofamiglia Elizabeth (Michelle Pfeiffer) col vampiro all'insaputa della figlia Carolyn; tuttavia anche costei, pur appena accennata, è la classica ribelle burtoniana. Come lo è la figura umbratile di Victoria; e le due sono accomunate da un'altra ossessione di Burton, il padre assente e/o malvagio. Peraltro anche la strega Angelique, villainess della storia, col suo amore respinto, disperato e incrudelito è una figura commovente. Molto spesso in Tim Burton il cattivo è un doppio del buono, partecipando della sua stessa qualità derelitta e fragile (pensiamo per fare un solo esempio a “Batman – Il ritorno”). E si materializza nel finale il mito burtoniano del giocattolo vivente, quando Angelique va in pezzi trasformandosi appunto in una bambola viva, un guscio vuoto di porcellana incrinato (con dentro un cuore - ma dura poco).
Johnny Depp nel ruolo del vampiro fa dimenticare il deludente Cappellaio Matto di “Alice in Wonderland”. Facendo riferimento, più che a Christopher Lee (il quale compare in un cameo), a Bela Lugosi e al Nosferatu di Murnau, Depp dà corpo a un'altra delle figure incantate e lunari di cui lui e Burton si dilettano insieme in un vero rapporto di simbiosi. C'è poi da rilevare un'innovazione. Mentre di solito i personaggi del regista sono casti, Barnabas è un personaggio sessuato: la scena in cui fa sesso con la strega (una sorta di rimpatriata di cui poi si pente), volando e distruggendo la stanza, oltre che in sé gustosa ha un sapore di novità.
“Dark Shadows” nasconde il suo melodramma sotto una coltre di risate. Perché è un film pervaso da un forte flusso di umorismo, ora gentile (il vampiro legge “Love Story” e lo cita solennemente come “meraviglioso romanzo”), ora tenebroso humour noir (l'episodio di Barnabas con gli hippies). Il linguaggio arcaico del vampiro (al servo: “Tu mi tergerai, malcreato”) è una delizia particolare. A tal proposito, proprio perché chi scrive è un avversario della pratica del doppiaggio, è in obbligo di segnalare che il doppiaggio del film è davvero eccellente, sia come testo sia come interpretazione. Del pari divertentissime sono le incomprensioni del vampiro settecentesco scaraventato nella realtà di due secoli dopo: “Mio dio – una donna dottore!” - ma la migliore di tutte è quando si meraviglia che la quindicenne Carolyn non abbia ancora marito. Per Tim Burton il concetto di spiazzamento è costitutivo.
Il cinema di Burton parte sempre da un'idea grafica, da una figura. Non solo le creature più o meno mostruose; anche gli spazi. Qui il grandioso palazzo di Collinswood, ricco e decadente, è una delle più belle dimore gotiche mai viste al cinema, ma l'immagine generatrice del film è la scogliera a picco sul mare, su cui “Dark Shadows” si apre e chiude, figura ultra-romantica dell'orrore e dell'attrazione del precipizio e della morte: e quindi un'altra delle porte fra i mondi alle quali il nostro sognatore americano ci ha guidato. Oserò dirlo? Ma sì: “Dark Shadows” è meglio – perché più dégagé e meno programmatico – di “Big Fish”.
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